Bello, ibrido e di classe: è il design

27 febbraio 2009

Ceramiche e vetri da collezione insieme con i lavori di Hervé Ingrand da Raucci/Santamaria

 

Non chiamatelo modernariato, per carità. Questo è puro design. E sulla sua parentela, stretta e legittima, con l’arte ormai c’è poco da discutere. Lo sanno bene Umberto Raucci e Carlo Santamaria, da trent’anni a caccia del bello senza gerarchie, nel quadro come nel tavolino. Perciò è ad una parte della loro collezione di mobili e oggetti d’arredo che attinge – e attingerà, con una rotazione mensile – la mostra nello spazio A della galleria. Pezzi premiati, pubblicati e “inseguiti” dopo letture, viaggi e riscontri, raccolti in un omaggio a un settore d’eccellenza del Made in Italy, con un punto di forza: la ceramica. Dal vaso in terracotta del calabrese Vincenzo Jerace, in cui la foggia liberty sposa l’arcaismo mediterraneo, al piatto decorato dall’estroso Lele Luzzati, vengono ribadite non solo la versatilità del materiale, ma anche la natura “ibrida” del design, che ha visto porsi al cimento artisti come Ettore Sottsass e Lucio Fontana (il quale negli anni Cinquanta “firmò” un tessuto di raso in seta per l’azienda lombarda JSA), o architetti come Afra e Tobia Scarpa (figlio, quest’ultimo, del grande Carlo). Lo “Showroom” pone altresì l’accento sulla perizia delle storiche manifatture tricolori, quali la ceramica Bitossi o le vetrerie muranesi, capaci di sfornare sinuosi vasi in un’unica “soffiata”: proposte eterogenee per linee e temi, avveniristiche, minimali, tradizionali. In ogni caso sempre originali e ragionate.
Dall’interior design alla pittura d’interni. Nello spazio B l’habitué Hervé Ingrand varia il consueto ciclo dell’atelier con un’operazione vintage. Alla sua terza apparizione napoletana, il 37enne parigino, in pieno accordo col dichiarato intento di “risparmio energetico” e la passione per i giochi di parole, recupera tele di repertorio (prevalentemente del 2005): ritratti del proprio studio, sui quali sovrascrive il monosillabo “ein”. Che è, al contempo, l’“uno” tedesco, e dunque principio, arché, richiamo alle origini; e porzione del termine francese “peinture”, attività che Ingrand ha sempre svolto in maniera assoluta e tautologica, come atto di riflessione in sé conchiuso. “Ein” è, inoltre, un’interiezione pronunciata in caso di fraintendimenti, il “Cosa?” pronunciato tendendo l’orecchio, tormentone cinematografico catturato in una scatolina sonora. È questo – insieme a “Constellation”, ricalco del pezzo di ricambio di una moto costellato, appunto, di piccole luci – il versante concettuale di un “Promemoria” (traduzione del “Pense-Bête” che dà il titolo alla personale) figurativo simboleggiato dal classico, e desueto, nodo al fazzoletto (accessorio significativo, giacché appartenuto al nonno Emile). In questa “poetica della rimembranza”, le variopinte lettere di “Ein” diventano così timbro eternante o, laddove manchino, alla fissazione provvede la cornice-trompe l’oeil, limite di dipinti ricchi di richiami correlati. Si distingue, per colori e imponenza, “Complot cabane”, impegnativo spartiacque datato 2003 nel quali i caratteristici toni bruni e la definizione grafica cedono a un’espressività cromatico-emotiva decisamente più fauve. Una porta aperta sul passato, tentennando tra ripartenza e cristallizzazione.

 

(Roma, 27 febbraio 2009)

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