La guerra di Piero

23 luglio 2018

Uomo, albero, colonna.
Partiamo da qui.
D’altro canto, lo stesso Piero nell’incipit decise di fissare una Triade: “La pictura contiene in sé tre parti principali, quali diciamo essere disegno, commensuratio et colorare”.
Uno, due, tre: disegno, “commensuratio” et colorare. Cadenza precisa di un gesto rituale, quasi l’artista debba “segnarsi” prima di attendere all’opera (la Vera Croce…).
Uno, due, tre: i capitoli del trattato.
Uno che si fa tre, e tre che si fa Uno.
Dal punto di vista letterario, l’inizio – diretto, conciso, rigoroso – compensa la scarsa originalità con l’efficacia e, forzando un po’ la mano, riporta alla memoria il mitico “Gallia est omnis divisa in partes tres” di Cesare. In fondo, anche il De prospectiva pingendi è un libro mitico; e, alla stregua di molti titoli altrettanto famosi e fondanti, ne paga lo scotto: tutti li citano, pochi li hanno letti, arrestandosi fatalmente davanti alla loro complessità.
Ma, se trovate – non a torto – arduo raccapezzarsi tra le pagine di questo scritto estremamente tecnico, “specialistico”, provate per un attimo a immaginare quale impresa ne sia stata la stesura. Allora perdonerete il paragone pindarico con il più celebre dei Commentarii romani. Perché, sotto sotto, anche quella del “pictor burgensis” è una guerra. Con se stesso, innanzitutto. Eccolo Piero, chino sulle sue carte fitte di appunti, schizzi, correzioni, dimostrazioni. Procede con lucida fatica per vie tortuose, come le anse argentee che scorrono in Val Tiberina. Si arrovella, assediato da dubbi, domande.
Non è il semplice sforzo di chi deve mettere in prosa (o poesia) la scienza, per farne letteratura ad uso esclusivo di un’èlite istruita. Il libro in questione non può avere troppi fronzoli, in quanto strumento di lavoro destinato ai “colleghi”. Tant’è vero che viene scritto dapprima in volgare: scelta coraggiosa e generosa, che promuove la dignità di una “lingua naturale” che nulla ha da invidiare al latino. E ‘dignità’ è una parola chiave: il De prospectiva pingendi è infatti un atto di fede, più che di mera fiducia, nei confronti della pittura e di chi la fa. Che, negli anni esattamente a metà tra Giannozzo Manetti e Pico della Mirandola, nel pieno fiorire dell’antropocentrismo, esorta l’uomo-artista ad alzare la testa, dopo generazioni di anonimi scalpellini e dipintori, artigiani ed esecutori, per professarsi orgogliosamente intellettuale. Fierezza che trapela, neppure troppo nascostamente, sotto quell’aggettivo ‘prosuntuoso’ che l’autore adopera per sé stesso.
Il messaggio è rivolto soprattutto a quei pittori che “biasimano la prospectiva perché non intendano la força de le linee et degl’angoli che da essa se producano […]”, in quanto “me pare de dovere mostrare quanto questa scientia sia necesaria alla pictura”.
Dovere. Scienza. Necessaria.
È nei tre anelli di questa catena che si staglia l’immagine di un Piero tetragono, altero, poco incline a radicarsi emotivamente nell’immaginario collettivo di oggi. Non si presta a diventare “amico”, né a suscitare isterie di massa. Talvolta enigmatico, sempre cerebrale. Pago di abitare la sua testa piena e pesante di vita. Perfetta, come un uovo.
Come potrebbe, d’altro canto, uno così bruscamente pragmatico sedurre folle plasmate da illusioni virtuali? Il suo abaco poco ha da spartire con gli algoritmi del Terzo Millennio, destinati più a destabilizzare l’identità e l’integrità della persona che a garantirle compattezza. La sua “realtà mentale” faticherebbe ad accettare una dimensione che smaterializza il corpo, creazione divina indagata (e rispettosamente amata) nell’ultimo capitolo del De prospectiva pingendi: da qui i disegni di volti e profili ricamati da numeri e tramati di linee sottili.
Rifare il reale è esercizio dell’arte. Esperienza, imperativo morale. Non banale e tranquilla missione, bensì lotta per conquistare un territorio culturale che il biturgense affronta per sé e per gli altri, specie i più pigri e refrattari, confinatisi a vivacchiare soltanto nel perimetro dell’occhio. La sua determinazione è salda quanto quelle figure monumentali, dipinte ad affresco o su tavola, a torto accusate di impassibilità. Perché, mentre dispone more geometrico un mondo da capire con squadre, compassi e cifre (uomo, albero, colonna), il pittore matematico svela la sua natura sentimentale, intesa come attitudine alla profonda comprensione delle cose. Un concetto espresso in maniera pregnante dal termine latino ‘studium’: ‘applicazione’, ‘diligenza’, ma anche ‘passione’, ‘entusiasmo’.
Che si fa bellezza pudica, e non esibita. Che respira nell’ordine razionale delle cose. Uscite dalle acque confinate di ori lucenti e architetture classicheggianti, le Vergini, pur solide e regali, sembrano prossime a librarsi come mongolfiere; e i sogni notturni trascolorano in cieli solcati da nuvole blande. Severità e distacco naufragano nel dolce cuore dell’Italia, che partorisce tra semplici campi e nude colline generazioni tutte d’un pezzo, nobili e rustiche. Radici onorate dall’artista con l’assunzione di cariche pubbliche in patria, giacché in questa riscoperta dei valori antichi non ci si può esimere dall’essere civis.
Un Umanesimo che, simbolicamente, sembra chiudersi anche con la morte di Piero: è il 1492, anno cruciale per l’Italia, l’Europa, e per un Mondo che non avrà più gli stessi confini.
Tutto sommato, anche il “monarca della pittura” è stato un pioniere, avventuratosi per mari incerti e spazi inesplorati. Non avrà scoperto un nuovo continente, ma ha attraversato e aperto terre vergini, “dicendo de puncti, linee, superficie et de corpi”.
‘Puncto’, linea, superficie.
Vi ricorda qualcosa?

Testo scritto per il catalogo della mostra De prospectiva pingendi. Nuovi scenari della pittura italiana, a cura di Massimo Mattioli. Todi, Sala delle Pietre/Palazzo del Vignola

22.04 – 01.07 2018

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