Andrea Aquilanti

2 febbraio 2010

Napoli, NotGallery

Aspasso nel dipinto. O nella sua riproduzione. Addizioni d’ombre e scatti a 360 gradi, in un laborioso alternarsi di tecnologia e tradizione. Dal panorama disteso a quello “immersivo”, per scoprire se la pittura è mobile…

Chi fosse abituato al disegno leggero di Andrea Aquilanti (Roma, 1960), alle sue cromie evanescenti, alle sue atmosfere chiare e rarefatte, si prepari a un piccolo choc. La Napoli da lui ritratta è infatti un’istantanea fosca e corrusca che, nella convenzionalità del taglio prescelto – la più classica delle vedute, ripresa da una terrazza di Posillipo -, ricalca la pletora di dipinti per secoli focalizzatisi sull’arco lambito dal Golfo. “Cartolina” che ha irrimediabilmente cambiato volto, dalla melodiosa Arcadia color pastello alla turpe colata cementifera modello Le mani sulla città. Naturalmente, critica sociale e documentazione urbanistica non sono tra le preoccupazioni dell’autore, qui impegnato a potenziare il suo consueto modus operandi grazie a Lucid, software sviluppato nel capoluogo campano dal canadese Jason Villmer, già lo scorso anno oggetto di un breve show alla NOTgallery e che esprime ora, per la prima volta, il suo potenziale “immersivo” e “interattivo” applicato all’arte. E se in passato per Aquilanti la fotografia e la proiezione intervenivano sul disegno, stavolta ne costituiscono l’origine e l’esito. Tutto comincia con un’immagine scattata, per l’appunto, con Lucid Wiever, la cui tecnologia permette un’inquadratura a 360°: gli obiettivi, dunque, hanno catturato simultaneamente e da più punti di vista il paesaggio prescelto. La foto “panottica” così realizzata è stata poi rielaborata pittoricamente, secondo uno di quegli scambi digitale-analogico cari alla filosofia della galleria napoletana: velo su velo, sovrapponendo alla grafica di supporto sottilissimi fogli di pet, sui quali di volta in volta un singolo colore evidenziava i dettagli.

Una stratificazione che ha dato luogo a una tridimensionalità dall’effetto flou, o simile alle stampe lenticolari. Ma non è finita qui: i quadri sono stati ri-fotografati e immessi all’interno di Lucid, sì da rendere possibile la “navigazione” al loro interno. Basta un mouse e ci si può, insomma, muovere in lungo e in largo all’interno dell’opera. Dal procedimento macchinoso scaturisce, accanto alla variante hi-tech di una diuturna tradizione, il nocciolo concettuale dell’esperimento: l’aleatorietà percettiva. Perché quel che la pittura non dice, o meglio non dichiara, è la sua reale natura: chiamato a entrare nel lavoro siano la proiezione del software o il quadro – lo spettatore si ritrova infatti disorientato, ignaro

o dimentico del tracciato di manipolazioni che lo ha portato lì. In una dimensione percorribile e tuttavia limitata.

Ma soprattutto ambigua e falsa, distorta e rielaborata in un fluttuare tecnico che non genera alcuna flessibilità o concreto abbattimento della barriera oggetto/osservatore. Sicché chi guarda potrà invadere lo spazio della creazione, ma non riuscirà a carpirne gli arcani.

anita pepe

mostra visitata il 23 dicembre 2009

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