Di sacro parlerà la mia pittura. Intervista a Francesco Lauretta

1 dicembre 2018

Francesco Lauretta_Il quadro più bello del mondo remix_2018_olio su tela e cornice bicolore_cm 50×70

Ne bis in idem. E invece. E invece Francesco Lauretta l’ha fatto, imponendosi nel recente autunno milanese con Due volte, un “esperimento” – curato da Marco Senaldi– di ri-animazione dei suoi dipinti precedenti. Proviamo a tracciare con lui non solo un bilancio a posteriori della mostra, ma a ripercorrere le esperienze più significative di un 2018 piuttosto intenso…

Facciamo un passo indietro, alla personale alla Galleria Bonelli conclusasi un paio di settimane fa… Le didascalie accanto ai lavori rispecchiavano gli interessi e le passioni letterarie e musicali che accompagnano la tua ricerca visiva. Quant’è importante per un artista essere colto “a tutto tondo”? E perché hai sentito di unire le opere alle parole?
Le didascalie sono piccoli estratti rielaborati di un testo cresciuto in tre mesi dentro uno studio che mi ha ospitato giusto per arrotare alcune pennellate, ma soprattutto per riflettermi. Mi sono immerso dentro lo studio che ho chiamato Fossa e il testo formatasi l’ho chiamato Nella fossa: un testo che apparentemente può ricordare, nella scrittura, un diario ma che poi s’è rivelato racconto ostile che ha generato e definito i particolari di Due volte, sia con le pennellate sia con le parole, gli ascolti, e il testo finisce con un disegno, il disegno di un’installazione, un progetto di struggente bellezza che individuavo ogniqualvolta entravo nella fossa, e che vedevo nitidamente: quello di un uomo impiccato. Ho pensato poi di formare questi piccoli sfogli da aggiungere sul lato sinistro delle opere in mostra, sotto la linea d’orizzonte che dava ritmo alla spiegazione dell’opera tutta, semplicemente perché non ho dato indizio ‘visivo’ delle opere trascorse che sono state, diciamo così, rigenerate, rifecondate. Allora la scrittura, i suggerimenti all’ascolto e altro sono diventati parte del processo in atto messo in moto dalla vertiginosa installazione e riflessione intorno alla pittura, ma soprattutto intorno alla veglia di un’esistenza che mai come prima avevo avuto modo di spiegare. Le mie passioni sono, come dire, parte del lavoro d’artista. Già in Reale avevo impostata una stanza dove era possibile accedere a un centinaio di libri, ancor più nelle suggestioni musicali, e altro. Anche in Idioti avevo esposto due tavoli coperti di suggerimenti e tre colonnine d’ascolti che avevano condotto a quel limite irresponsabile e nutriente quale era il mondo esibito, tutto, con gli occhi del pittore, o pittoricamente, Per me ogni mostra è una possibilità di condivisione di un progetto aperto, possibile e deformabile, che è frutto di una curiosità estrema, pulsante, rinvigorente, che abbraccia letteratura, poesia, musica -di ogni tempo e modi- filosofia, antropologia, teatro, e arte naturalmente, e tutto questo sguardo è piegato dalle sollecitazioni interiori che col tempo hanno dato, formato, il mio motivo d’onda come pittore, o come pittore che ama senza avere nostalgie del cavalletto, o verso certi colori o tecnicismi subdoli che possono confondere e avallare altri suggerimenti e nozioni inerenti al linguaggio proprio, interno, della pittura. Come una espansione del pennello e del colore mi servo di ogni cosa che mi faccia riflettere, condurre all’umana gloria.

Rifare i tuoi vecchi dipinti è stato un atto d’amore o di coraggio?
Faticoso, è stato, e alla fine entusiasmante perché ho registrato la differenza che è stato uno dei motori che mi ha indotto a scegliere, individuare quali opere rianimare, come fare una grande opera sul Tempo. Non c’è stato amore né coraggio, a parte quel coraggio che mi ha inchiodato davanti alle tele, alcune almeno, come in Esercizio 1 remix che mi ha davvero spaventato. Per una settimana mi accomodavo su una sedia e osservavo la tela, bianca, e pensando ad Esercizio 1 sbiancavo per timore di non farcela ripercorrendo con la memoria tutto il lavoro, circa quattro mesi, che mi aveva tenuto in allarme per la sua realizzazione: un lavoro lungo, di velature e ritocco costanti, con ori e argenti, aureolina. Mi dicevo che era follia, m’era impossibile accedere in quello spazio bianco, così pulito e allo stesso tempo così ‘spirituale’, dove avevo dipinto la natura e l’uomo: un uomo immerso nell’incanto, nell’enorme solitudine vegetale colpito da un raggio di sole, colpito di luce e creato. La differenza è avvenuta ricordando l’opera di Sokurov, ripercorrendo quello spazio ricamando, senza nessun ritocco (montaggio direbbe Sokurov), natura e uomo illuminato, tanto che alla fine ho impegnato solo, si fa per dire, 28 giorni della mia seconda volta. Un successo, potrei dire: nel cartiglio ho definito il mio Esercizio come la mia Arca Russa. Alla fine ho compreso di essere diventato un bravo pittore. La sorpresa non mi ha allarmato né mi ha entusiasmato a dire il vero perché nelle prime prove le difficoltà, così evidenti, davano alla fine un risultato straniante, vedevi subito che c’era qualcosa di storto rispetto alla cosa dipinta, vedevi che il mio leone, uccello o uomo dipinto sembrava vivo, ma con occhi attenti capivi anche che erano tutte immagini di morte le mie, imbalsamate – come ho detto recentemente un imbalsamatore ero verso la pittura. Adesso le stesse opere, quelle di Due volte, si mostrano diversamente, e vitali: non ho dubbi su questo esito.

Replicare sé stessi equivale a mettersi in discussione e intraprendere un viaggio nella memoria, due processi che di certo non si affrontano a cuor leggero. Come ti sei preparato?
A Palermo, più che nella mostra Due volte, ho tenuto un lavoro, durante la residenza del Grand Tour (curata da Michela Eremita insieme a Susanna Ravelli), durissimo perché ho rimesso lì, sì, in discussione tutta la mia vita d’artista. È stato immorale fare un’opera di questa tenuta: riscrivere un diario quotidiano che dalla recente data mi ha condotto fino all’esordio, quando lasciai l’isola per fare l’artista. In Due volte non mi mettevo in discussione, ripeto: il progetto mi metteva in una condizione posturale nuova, animata, entusiasmante perché ho compreso Due volte in una forma originale e originaria che mi ha definito pittore, finalmente pittore, senza trauma. Non ero preparato, a Palermo, tanto che durante la breve residenza sono crollato più volte, arrabbiato anche, dandomi dell’idiota e tirando pugni contro i miei fantasmi. È stato magnifico.

Quest’anno sei stato impegnato, oltre che a Palermo e a Milano, anche alla Fondazione Rossini e a Casa Sponge, nelle Marche: puoi raccontarci in breve queste esperienze?
Tre diverse esperienze, tutte benedette. The Battle a Briosco, Radioso e O solitude, my sweetest choice a Palermo e un breve incontro con amici pittori a Casa Sponge. In questi quattro impegni risiede la modalità, a tutto tondo o quasi, del mio modo di vivere e intendere l’arte. In The Battle, curato da Francesca Guerisoli presso la Fondazione Rossini, ho continuato quel mio strano stare al mondo strusciandomi con la morte. Come un Caronte fermavo su fogli segni che di volta in volta i vivi-morti mi lasciavano trasparire nella loro posa, deposti su un letto candido. In uno spazio allestito e naturale che mi faceva percepire lontano, rassicurante ma facilmente raggiungibile poi da chiunque fosse in quel luogo, chiamato limbo, dove potevano ascoltare i miei Racconti funesti, queste anime venivano accompagnate fino al letto di morte, dove morivano. E una volta segnate si rianimavano, per procedere nella loro propria esistenza. Con Radioso, a Villa Zito, curata da Sergio Troisi, in breve è stato facile abbracciare con alcune mie opere le opere di pittori della collezione Zito; mentre l’evento messo in scena nella Cripta del Piliere, ideato da Cristina Costanzo, è stato un’opera intensa, affine a The Battle perché mi sono calato sottoterra in un angolo dove i morti si colavano. O solitude my sweetest choice è un’opera di molti occhi fatta: un gioco forza esisteva tra lo sguardo del pubblico, lo sguardo dell’opera, il mio sguardo, e lo sguardo degli Smartphone che registravano quel vedere e vedersi in O solitude. A Casa Sponge, la residenza marchigiana di Giovanni Gaggia, abbiamo trascorso momenti sognati: incontrare amici, artisti, immersi nella straordinaria cornice naturale del suo paesaggio, nel borgo poi, assieme ai popolani che ci portavano vino, andare a cena con gli amici pittori, parlare animosamente d’arte, mangiare pasta al tartufo, bere vino, disegnare, alzarsi all’alba per immergersi lontano nei monti, diventare paesaggio, spazio, stare coi gatti, i cani. Un sogno. Un bello stare al mondo. E come un bello stare fortunatamente tutto è stato breve, grazie a Casa Sponge.

Ti capita mai di essere influenzato dagli allievi della “Scuola di Santa Rosa”, da te animata – nell’omonimo bistrot di Firenze, e talvolta anche “in trasferta” – insieme a Luigi Presicce?
No, mai. Ognuno arriva armato o disarmato con le proprie emozioni, desideri. Galleggiamo in un momento spogliato da tensioni di qualsiasi natura, ognuno fa quello che vuole. Generalmente si arriva al bistrot e si lavora. Spesso, purtroppo per loro, io comincio un po’ dopo a disegnare perché magari faccio un prologo, in breve parlo, a volte tanto. A volte apprezzano, a volte ignorano le mie chiacchiere ma so bene, e mi sono abituato, che anche la mia voce, come la loro, i segnali tracciati nei fogli, servono per ornare quei momenti meravigliosi.

A bruciapelo: figura umana o paesaggio?
In Esercizio 1 ho dipinto figura e paesaggio senza timidezze. La figura è più facile, però. Ma è possibile che prima o poi riesca a pensare e a fare una mostra di paesaggio come facevano i grandi paesaggisti, che per me sono i vari Lorrain & c.

I tuoi dipinti raccontano spesso riti, tradizioni, pratiche devozionali. Qual è il tuo rapporto col Sacro?
Non so dire. Rispondere mi è difficile. Vedi, un ragazzo torna al suo paese e vende un cane, il cane di suo padre ignaro, per riuscire a pubblicare il suo romanzo. C’è qualcosa che mi dona fastidio in questa scelta, credo, per le sorti del cane. C’è anche una volontà folle in questo gesto che merita comunque, come nei grandi romanzi tramandatici, rispetto e stupore: quella di riuscire nell’opera, ad ogni costo. Eppure quel cane mi tormenta, proprio non riesco a liberarmi del suo stato inerme, vittima di una volontà cui nulla può seppur esso abbia investito tutto l’amore e la fiducia verso il suo padrone, il padre qui violato, e violato il cane. Quel cane non mi fa prendere sonno. Non so che dire. Non riesco a trovare qualcosa che risponda alla tua domanda. Mi ossessiona il gesto del ragazzo, mi domando poi fino a che punto c’è opera o cosa è possibile fare per realizzarla, costi quel che costi, eppure c’è qualcosa di prossimo al martirio, contro ragione in quel gesto furioso. Quel gesto muove l’ambizione dell’uomo, e la sua opera. Ossessionato dai cani, e penso a Flaubert, o a Coetzee, o a questa opera straordinaria quale Ahlat Agacia appena raccontata, penso e mi lascio pensare a queste e da questi segnali di irragionevolezza. In quello stare, in mezzo stare osservo il mondo. Nelle tele che dici in fondo mi hanno sempre affascinato i rituali e il mezzo della loro rappresentatività. Tele siffatte, queste delle processioni religiose, potrebbero spiegarle meglio di me Canetti, o meglio ancora Furio Jesi. Nato in un piccolo paese dove il folclore è misto alla tradizione e il sacro è qualcosa di prossimo al fanatismo, ecco, sono cresciuto dentro questo inabissamento della vita reale, pulsante di irrealtà devota, che da sempre mi ha spaventato. Queste ritualità in qualche modo hanno segnato come un incubo parte della mia percezione del Sacro seppur viva a modo mio, intimamente intendo, questa alterità. Non ho mai compiuto una mostra sul Sacro e, se proprio dovessi, inseguirei le forme alte della fuga come ha fatto il più grande, Bach. Ci sono opere che sento sacre, benedette. Queste mi commuovono e mi fanno dannare perché non sono un credente. Ma amo tutto del Sacro: i luoghi sacri, le opere, i santi, il color porpora, l’azzurro e lo zafferano delle vesti, le aureole kirliane, l’estasi degli sguardi, i capezzoli pronunciati, il rosaceo, i pilastri di madreperla. Il Sacro mi sorprende nei giorni di grazia, e sono momenti in cui cedo alla preghiera.

Come artista, che cosa ti fa paura?
Anche a questa domanda fatico a rispondere. Mi fa paura l’Arte. Alcune opere in particolare, e sono quelle che non riesco a comprendere ma che mi mettono con le spalle al muro. Per incomprensibili intendo opere che non capisco come sono fatte, realizzate, come sono state generate e risolte: e come accadono allo sguardo, interiore ed esteriore. Succede raramente e quelle volte che mi accade di incontrarne una mi fa tremare, di paura. Se, mi domando, un uomo è riuscito a fare tanto, tanto che io non riesco a comprendere come sia stata fatta l’opera, come sia così distante e feconda da me, allora mi fa paura. Ma questa paura la rispetto e mi spinge a credere che ho fatto poco o nulla e, quindi, è una paura, questa, che parla a me stesso come artista, come persona che si lascia sorprendere dall’irragionevolezza abissale che esiste tra uomo meo e opera. Mi è successo quando ho visto la pala di Raffaello della Trasfigurazione, o come il Faust di Anne Imhof, Leone d’oro all’ultima Biennale veneziana. Allora, disorientato, comincio a dimenticare, a decantare quella paura che ha la forma dell’Oscuro per poi inseguirla, sognarla per il resto dei miei giorni. Inseguo, infine, questa paura che spero possa anche accedere a me stesso, forse perché sogno qualcosa di grande, di così grande che io, così minuscolo, indistinto punto nel mondo, posso solo sognare e chiedere di provare a fare meglio, sempre. La paura mi è necessaria per finire meglio, al meglio, anche con un semplice foglio di carta, la mia resistenza contro la vita.

Che lingua parla, oggi, la tua pittura?
Il suo raggio è esteso, fatto di luce. Lo sforzo mio è quello di estenderlo ulteriormente almeno finché mi sarà possibile; ma più di che lingua parli la mia pittura, oggi, mi interessa pensare a qualcosa che possa estendersi, essere incinta, gonfiarsi, all’essere prospera la forza della mia pittura; di Sacro, insomma, parlerà la mia pittura.

(Intervista pubblicata su Artslife, 28 novembre 2018)

La mostra come macchina scenografica. Bruno Ceccobelli a T’odi

5 ottobre 2018

Forse non è giusto, forse non è appropriato. Come si può infatti definire T’odi una “retrospettiva”? Lo sarebbe, se ci limitasse a scorrere la cronologia delle opere. Lo sarebbe, se si prendesse come unico parametro la lunga, lunghissima carriera di Bruno Ceccobelli. Ma non lo è. Proprio perché lui, l’artista, torna nella sua Todi senza nostalgia di sé stesso, proponendosi invece con un salto in avanti e un allestimento a dir poco scenografico (guarda caso, la vernice coincideva con l’apertura del Festival teatrale che da 32 edizioni anima la cittadina umbra).
Sala delle Pietre “tranciata” in altezza, con una licenza che però non sacrifica la grandiosità dell’aula, lungo le cui pareti corre l’impalcatura che accompagna e obbliga alla visione dall’alto di lavori che coprono un arco di circa quarant’anni: 1981-2017. Provate a distendere, fisicamente, questo tempo nello spazio. A visualizzarlo. A misurarlo. A immaginare in quanti modi un artista possa impiegarlo senza ripetersi, senza apparire monotono, senza trasformarsi in un cliché. Senza annoiarsi e impoverirsi. E come possa, poi, offrire – e non esibire – ciò che ha prodotto, affrontando con giudizio la crudele necessità di una cernita. (altro…)

L’epopea della Tazza Farnese in un libro

30 settembre 2018

D’ambra, di miele, di fuoco. È questa la luce che, pagina dopo pagina, svela la Tazza Farnese, il più grande vaso inciso del mondo antico. Frutto della collaborazione tra l’archeologa Valeria Sampaolo e il fotografo Luigi Spina, la monografia (5 Continents) affianca all’itinerario per immagini non solo la complessa – e ancora controversa – analisi iconografica del manufatto, ma accompagna i lettori in una storia prestigiosa e alquanto movimentata: realizzato in età ellenistica, probabilmente appartenuto all’imperatore Augusto, questo straordinario oggetto rituale nel Medioevo viaggiò più volte tra l’Oriente e l’Italia (fu “avvistato” anche nel tesoro di Federico II di Svevia), dove tornò dopo la caduta di Costantinopoli, passando dalla corte aragonese di Napoli alle collezioni papali. Da qui, la “scodella” giunse nelle mani di Lorenzo il Magnifico; a metà del Cinquecento si mosse da Firenze insieme a Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici e sposa in seconde nozze di Ottavio Farnese. L’ultimo, e definitivo, spostamento nel Settecento, quando Carlo III, re di Napoli e (poi) di Spagna, trasferì sul suolo partenopeo l’imponente raccolta di capolavori ereditati dalla madre Elisabetta Farnese. (altro…)

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