Sw…hiss

17 settembre 2013
Valentin Carron_ Ciao n* 6_ 2013. Padiglione Svizzera, 55 Biennale di Venezia. Ph. Daniele Podda, courtesy La Biennale

Valentin Carron_ Ciao n* 6_ 2013. Padiglione Svizzera, 55 Biennale di Venezia. Ph. Daniele Podda, courtesy La Biennale

 

Chi di voi, guardando la foto in alto, non direbbe che questo è un motorino? Eppure è un’opera d’arte. Al limite, ma proprio al limite, vanno bene tutt’e due: motorino e opera d’arte. L’importante è che prendiate coscienza della seconda.
Insomma, l’intorto del ready made è vivo e lotta insieme a noi, solo che tra la ruota di bicicletta e quella del ciclomotore qualche decennio è passato e ce ne siamo accorti. Garage di lusso il Padiglione Svizzera, che meritoriamente fa elaborare allo spettatore lo choc della scorsa Biennale, quando Hirschhorn non fece cadere uno spillo a terra (e comunque ci piacque tanto). Quest’anno Valentin Carron rigenera la purezza degli spazi e invita a seguirlo passo passo con un indovinato trucco da fachiro: il sinuoso serpente di ferro che, a mo’ di tributo, dipana le sue volute in tutto lo spazio progettato da Bruno Giacometti (fratello del “dottor sottile” Alberto), dove aria e luce esaltano i pannelli in vetroresina e gli strumenti musicali spiaccicati, cicli dettati rispettivamente da intenti di riproduzione e distruzione “performativa”. E se il rettile metallico non si morde la coda (inesistente, perché, se lo seguite fino in fondo, vedrete l’altra testolina gettarsi oltre il muro di casa Elvezia), è l’artista ad andare in cortocircuito sul finale, dove appunto fa bella mostra di sé il “Ciao n° 6” “delicatamente restaurato” che, ormai sepolta l’automobile futurista, tenta di salvare dallo scasso un’altra Nike con la marmitta. (altro…)

Eroi eroine

12 luglio 2010

Rivalta (to), Castello

Segni che non lasciano traccia. Nella società delle icone-fast food e degli eroi per un giorno, l’arte prova a fare il punto della situazione. Chiedendosi se esista ancora il potere dell’immagine…

Quando un progetto è in rodaggio, la prudenza non è mai troppa. Accade così che a Rivalta si ripeta l’impostazione con la quale, lo scorso autunno, l’articolato castello locale entrava nella partita culturale della cinta torinese. Collettiva bis, e trait d’union col passato la “riconvocata” Maura Banfo, che si sdoppia facendo da madrina all’apertura delle scuderie col video-pendant di una serie fotografica, in cui un vecchio libro di fiabe sfogliato da mani rugose pare invitare lo spettatore a varcare lo specchio, come Alice nel Paese delle Meraviglie.

Perché le proposte sono tante, se non per quantità per varietà, in una mostra avvolta intorno a un enunciato complesso, ma a rischio dispersione nella sua traduzione espositiva. Una riflessione sulla bulimia di immagini, che oggi assurgono facilmente a simulacro e altrettanto in fretta, dopo uno sfruttamento intensivo, si sgretolano, fino -per dirla con Baudrillard – alla “sparizione dell’arte”.

Ed è proprio al punto di svolta del XX secolo secondo il teorico francese – la Pop Art – che afferisce uno dei filoni del percorso. Pop è Mary Sue, che bamboleggia equivoca con un enorme bon-bon, ironizzando sui cliché femminili. Pop è il lightbox di Hung Tung-Lu, opportunamente collocato sull’altare della piccola cappella, dove Sailor Moon si staglia contro una pala gotica. Pop è Roxy In The Box, che ridipinge statue devozionali con i panni dei supereroi dei comics non per contraffazione blasfema, bensì per glorificarne e attualizzarne i Pow!-ers. Dissacrante è invece Diego Scroppo, cui basta rovesciare l’insegna di una farmacia per capovolgere contemporaneamente simbolo e senso. (altro…)

balter.viviana