Perino&Vele, l’orgia della spesa

1 aprile 2019

Perino&Vele_ph Francesco Squeglia

Immaginate un grande centro commerciale in periferia, o all’uscita della circonvallazione: una di quelle catene dei fai-da-te aperte anche la domenica. Pensate a quei bazar h24 in piena città, dove tra neon e zaffate di spezie c’è di tutto, dalla medusa in salamoia al dentrifricio. In poche parole, i classici posti dove entri per comprare un cacciavite ed esci con una lampada, un sacco di terriccio, una scorta di assorbenti e un pizzico d’infelicità in più.
Perché la bulimia degli acquisti non sconfigge il mal di vivere. E tutto questo comprare, comprare, comprare svuota le tasche e l’anima, mentre ci riempie le case di roba inutile.
È l’elementare, tragica constatazione dalla quale muove “HappyBrico”, personale con cui Perino&Vele celebrano un quarto di secolo di sodalizio. In quanto al segreto di un matrimonio così longevo, i diretti interessati rispondono così: «Ci siamo conosciuti tra i banchi di scuola. Eravamo giovani e con un sogno in comune: diventare artisti. Dopo 25 anni siamo ancora insieme, significa che eravamo sicuri delle nostre intenzioni. Ormai artisti lo siamo diventati. Il sogno ora è continuare la nostra carriera insieme per prepararci alle nozze d’oro».
Luogo dei festeggiamenti (inaugurazione oggi alle 12, fino al 4 maggio) non poteva che essere la Galleria Alfonso Artiaco, da sempre loro punto di riferimento e di partenza verso il mondo. Una geografia piuttosto estesa, quella del duo, che si divide fra Rotondi e la Grande Mela: «New York è la nostra seconda casa, per Emiliano la prima, visto che è nato e cresciuto li. La nostra famiglia è in Valle Caudina, dove rientriamo dai viaggi, le mostre, le continue tappe americane. Lo studio a New York è una grande opportunità. Vorremmo dare una risposta poetica, ma la verità è che lì si lavora tanto: è una città che ti assorbe, ma riesce anche a restituirti le forze. In mezzo, riusciamo a creare il nostro mondo, come quest’ultima mostra».
Già, le mostre. In gallerie, musei, fondazioni. E poi eventi internazionali – tra cui, nel 1999, la “mitica” Biennale di Szeemann – e installazioni pubbliche, come quella ormai iconica nella stazione Salvator Rosa, con le Cinquecento coperte da un tessuto trapuntato, studiato fin dagli esordi come propria cifra stilistica. Una forma morbida che evoca sicurezza e comfort, ma che nasconde ironicamente quell’invito a riflettere su questioni scomode che costituisce la sostanza del lavoro di Luca ed Emiliano. Ad esempio “Kubark”, intitolata come il famigerato manuale della Cia: era il 2004 e, nella vecchia galleria di Piazza dei Martiri, accanto al monumentale cammello vi era una rumorosa impastatrice, che schizzava dappertutto poltiglia di carta di giornali. E qui un altro fondamento della scultura di Perino&Vele: la cartapesta. Il loro Happy Brico, si potrebbe dire. Ma, dopo tanto tempo, c’è ancora felicità nel lavorare “manualmente”? «Non abbiamo mai abbandonato il processo di produzione legato alla tecnica del lavoro manuale. Abbiamo tentato degli esperimenti, perché le nuove tecnologie si modificano e avanzano per sostituire la manualità, ma con scarsi risultati: il processo tecnologico non restituisce il calore della mano dell’uomo».
Il nuovo progetto si sviluppa anche sulla superficie piana, con undici disegni e un wall painting ad accompagnare i cinque cavallini a dondolo matelassé “Madeforyou” che, un po’ giocattoli un po’ bestie da soma, portano appiccicati addosso oggetti di vario tipo: flaconi, tubetti, utensili, sex toys, orci.
Inevitabile, in una ricorrenza così importante, lo sguardo “strabico” su passato e futuro. Il ricordo più bello? «Abbiamo attraversato momenti difficili, conosciamo la situazione italiana nell’ambito culturale e ciò ha colpito anche noi, non solo nella produzione, ma anche nelle logiche di ideazione. In questo periodo l’idea di aprire anche uno studio a New York ci ha risollevato e quindi per noi quel momento che ci ha dato speranza è un buon ricordo, la marcia in più per ripartire». Programmi? «Non c’è solo la mostra da Artiaco, ma anche un solo show al prossimo Miart, con la stessa galleria; poi, a novembre, da Alberto Peola a Torino. Aspettiamo che il pubblico si confronti con le nostre produzioni. Dalle prime anticipazioni, sembrano già venir fuori consensi e crediamo che questo sia fondamentale. Il futuro ci attende e siamo pronti a muoverci tra le sue incertezze con la nostra consolidata esperienza di 25 anni»

(Articolo pubblicato sul Roma, 30 aprile 2019).

Orlando contro se stesso. Concetta Modica fra mitologia e condivisione

14 gennaio 2019

Prima li ha creati, poi li ha distrutti. Sono i pupi che Concetta Modica ha realizzato per la sua “Trilogia di Orlando”, progetto dalla lunga gestazione concretizzatosi sullo scorcio dell’estate 2018 e che, “scavalcando” l’anno, sarà ancora visibile fino alla fine di gennaio. Il paladino pazzo d’amore, dunque, va in soffitta… nel vero senso della parola: l’ultimo atto di una “quête” svoltasi tra Milano, San Gimignano e la Sicilia, respira infatti fra i relitti della battaglia nel sottotetto dello spazio C. O. S. M. O..

Da quanto tempo pensavi alla “Trilogia di Orlando”? E quanto ce n’è voluto per svilupparla?
Nel 2017, mentre Elena El Asmar e io preparavamo la mostra a Villa Pacchiani, Ilaria Mariotti ha usato il termine epico per il mio lavoro. È stato un click che mi ha chiarito molte cose, il primo spunto da cui è nato il mio lavoro Rinaldo che dorme su un cuscino con iniziali non sue. Poi mi è venuto in mente che mi sarebbe piaciuto rappresentare una battaglia tra pupi in ceramica che si frantumavano e ne ho parlato con Michela Eremita, che si è innamorata del mio progetto. È anche grazie a lei che la Trilogia è andata avanti: ha trovato il modo di far venire in luce questo programma complesso ed ambizioso; ne abbiamo parlato per sei mesi al telefono tutti i giorni! Poi ne sono occorsi altri sei per realizzare tutto. Adesso abbiamo la depressione post partum! è uno di quei progetti in cui ho coinvolto tante persone che amo, fanno parte della mia vita, della mia storia, a cui sono grata: Francesco Pantaleone, la Federazione Italiana Scherma e il suo presidente Giorgio Scarso, gli schermitori della Società sportiva di Colle Val d’Elsa, lo Spazio C. O. S. M. O., Culture attive di San Gimignano, Carolina Taddei e Martina Marolda, Giancarlo Danielli, Francesca Caponi e tanti altri. Ci sarà un libro che ripercorre tutte le tappe, con contributi di una poeta, scrittori e scrittrici, in modo da collegare un mondo narrativo che esiste dietro Orlando e alle immagini nate in questo anno intenso.

Ripercorriamo brevemente il progetto…
La “Trilogia”
ha coinvolto diversi momenti e scenari. Prima tappa “La partenza” a Milano, nella Galleria di Francesco Pantaleone: una narrazione che dava l’idea dei preparativi del viaggio con casse da trasporto e pupi in fila pronti per l’imballo, e una serie di suggestioni che nel mio lavoro hanno a che fare con il tempo e l’imponderabile.
A San Gimignano, la battaglia, in piazza: ultimi personaggi con una spada in mano, degli schermitori che avevano con sé, al posto delle armi, il pupo in ceramica che avevo modellato, una sorta di alter ego, l’Orlando che c’è in noi, forte, pronto al duello, ma fragile. Gli schermitori, tutti uguali in tenuta bianca agonistica, con pupi bianchi in braccio che duellavano sono sé stessi, sino a distruggersi. Il pubblico non era quello delle gallerie, ma quello di una notte bianca degli eventi estivi in una città d’arte: turisti, stranieri, curiosi. È stato interessante confrontarsi con un pubblico così diverso, eterogeneo eppure molto attento e partecipe. Spazio C.O.S.M.O., sempre a Milano, è invece uno spazio particolare, un luogo nascosto nello studio di Luca Pancrazzi ed Elena El Asmar, molto suggestivo, in penombra. È esso stesso un’opera. A me ha fatto gioco la simmetria dello spazio, delle capriate del tetto, e questo ha accentuato la questione del doppio, di Orlando contro se stesso, non più in lotta contro i turchi. Questa volta a presentare quel che rimaneva dei pupi frantumati era la presenza statica, immobile di tre coppie di gemelli e gemelle. Doppi frantumati presentati da immagini doppie in uno stato di penombra inconscia, in uno spazio: il sottotetto.

Dalla scherma ai pupi, quanto c’è del tuo retaggio personale in questa mostra?
Tutto. Ho fatto scherma per tanti anni. Una palestra di educazione e di amicizia. Lo sport della giusta distanza, tempo, misura e velocità. Metafora di tante cose.

Lo scorso anno hai preso parte anche a due progetti nell’ambito di Manifesta, “Grand Tour”, sempre a cura di Michela Eremita, e “Ozio”, ideato da Adina Drinceanu. Com’è stato, da siciliana, lavorare nella sulla tua terra?
Bellissimo. Palermo è sempre più vivace e più bella, ovviamente da ospite occasionale non vedo i difetti, le fatiche, ma il calore e l’atmosfera. Nel gruppo in cui abbiamo lavorato eravamo solo in due siciliani, Francesco Lauretta ed io. Gli altri erano completamente sedotti dalla città e conquistati dalla bellezza delle persone.

Spesso sei impegnata in progetti condivisi o “inviti” altre persone nei tuoi. Perché?
Come mi ha insegnato Francesca Pasini le opere sono soggetti, non oggetti, messe al mondo, non in modo biologico, ma per volontà. Se mi relaziono con le opere, sia mie che di altri, come soggetti, per me è naturale che in questo scambio di esperienze e di dialogo ci siano degli esseri viventi e se i miei lavori contengono tempo, e spesso sono tempo esse stesse, il tempo è la vita delle persone che condividono con me questa esperienza. Qualche anno fa ho collaborato con un sarto milanese, Sandro Cristiani, ed abbiamo fatto un disegno a quattro mani. Lui era stato il sarto di Beppe Viola, Angelo Rizzoli, Gianni Brera. Mi raccontava di Milano in bicicletta, aneddoti personali; aveva preso le misure di tante persone e raccontava tempo che per me non è passato, ma presente, nel suo racconto accade oggi, tutto è solo presente. Un’altra collaborazione importante è stata con Sophie Usunier: abbiamo curato una serie di incontri dal titolo “Racconto di20”, in cui abbiamo invitato molti artisti a raccontarci il loro lavoro senza uso di immagini, mentre chi ascoltava disegnava e in quel gesto, anche in quella occasione, tutto diventava presente. Molti anni fa ho coinvolto delle nonne finlandesi a fare un ricamo tratto da un disegno di un artista contemporaneo locale con la lana della coperta di mia nonna. Con Gianluca Codeghini abbiamo fatto un concerto con 5 musicisti utilizzando come trombe delle conchiglie marine, semi immersi nell’acqua della piscina di “Madeinfilandia” e ne è nato un vinile dal titolo “Schiumasound”. E poi ho dialogato e dialogo con tanti artisti perché sento di appartenere ad una comunità di persone con cui condividere un orizzonte comune.

Installazioni, performance, libri… Nella tua carriera ti sei confrontata con molti media. Quali saranno gli sviluppi futuri?
Ogni lavoro per me si appoggia al lavoro precedente, quindi tutto parte da una spinta, un lavoro spinge l’altro e spesso contiene un conflitto, un paradosso. Quindi c’è sempre uno sviluppo che può partire dalla stessa materia o da fattori esterni. Non so bene cosa succederà.

Quanto è importante la parola nel tuo lavoro?
La parola mi intriga molto, ma non m’interessa utilizzarla per un lavoro artistico. Alla fine cerco un’immagine, di tutta un’azione anche lunga, con molti elementi, quello che si cerca è un’immagine che riesca a dire, a fermare, evocare, ad esplicitare una visione.

Cosa sta ancora cercando Orlando?
Orlando cerca l’ordinario, la bellezza del quotidiano, della routine. Una vita epica si dipana davanti a noi, ma ci sfugge, sfugge la bellezza delle cose che abbiamo, cerchiamo sempre altro. Oggi la lentezza come idea è epica, vorremmo rallentare, ma il suo cavallo va troppo veloce e quella velocità dà anche ebbrezza.

(Intervista pubblicata su Artslife, 12 gennaio 2019)

Di sacro parlerà la mia pittura. Intervista a Francesco Lauretta

1 dicembre 2018

Francesco Lauretta_Il quadro più bello del mondo remix_2018_olio su tela e cornice bicolore_cm 50×70

Ne bis in idem. E invece. E invece Francesco Lauretta l’ha fatto, imponendosi nel recente autunno milanese con Due volte, un “esperimento” – curato da Marco Senaldi– di ri-animazione dei suoi dipinti precedenti. Proviamo a tracciare con lui non solo un bilancio a posteriori della mostra, ma a ripercorrere le esperienze più significative di un 2018 piuttosto intenso…

Facciamo un passo indietro, alla personale alla Galleria Bonelli conclusasi un paio di settimane fa… Le didascalie accanto ai lavori rispecchiavano gli interessi e le passioni letterarie e musicali che accompagnano la tua ricerca visiva. Quant’è importante per un artista essere colto “a tutto tondo”? E perché hai sentito di unire le opere alle parole?
Le didascalie sono piccoli estratti rielaborati di un testo cresciuto in tre mesi dentro uno studio che mi ha ospitato giusto per arrotare alcune pennellate, ma soprattutto per riflettermi. Mi sono immerso dentro lo studio che ho chiamato Fossa e il testo formatasi l’ho chiamato Nella fossa: un testo che apparentemente può ricordare, nella scrittura, un diario ma che poi s’è rivelato racconto ostile che ha generato e definito i particolari di Due volte, sia con le pennellate sia con le parole, gli ascolti, e il testo finisce con un disegno, il disegno di un’installazione, un progetto di struggente bellezza che individuavo ogniqualvolta entravo nella fossa, e che vedevo nitidamente: quello di un uomo impiccato. Ho pensato poi di formare questi piccoli sfogli da aggiungere sul lato sinistro delle opere in mostra, sotto la linea d’orizzonte che dava ritmo alla spiegazione dell’opera tutta, semplicemente perché non ho dato indizio ‘visivo’ delle opere trascorse che sono state, diciamo così, rigenerate, rifecondate. Allora la scrittura, i suggerimenti all’ascolto e altro sono diventati parte del processo in atto messo in moto dalla vertiginosa installazione e riflessione intorno alla pittura, ma soprattutto intorno alla veglia di un’esistenza che mai come prima avevo avuto modo di spiegare. Le mie passioni sono, come dire, parte del lavoro d’artista. Già in Reale avevo impostata una stanza dove era possibile accedere a un centinaio di libri, ancor più nelle suggestioni musicali, e altro. Anche in Idioti avevo esposto due tavoli coperti di suggerimenti e tre colonnine d’ascolti che avevano condotto a quel limite irresponsabile e nutriente quale era il mondo esibito, tutto, con gli occhi del pittore, o pittoricamente, Per me ogni mostra è una possibilità di condivisione di un progetto aperto, possibile e deformabile, che è frutto di una curiosità estrema, pulsante, rinvigorente, che abbraccia letteratura, poesia, musica -di ogni tempo e modi- filosofia, antropologia, teatro, e arte naturalmente, e tutto questo sguardo è piegato dalle sollecitazioni interiori che col tempo hanno dato, formato, il mio motivo d’onda come pittore, o come pittore che ama senza avere nostalgie del cavalletto, o verso certi colori o tecnicismi subdoli che possono confondere e avallare altri suggerimenti e nozioni inerenti al linguaggio proprio, interno, della pittura. Come una espansione del pennello e del colore mi servo di ogni cosa che mi faccia riflettere, condurre all’umana gloria.

Rifare i tuoi vecchi dipinti è stato un atto d’amore o di coraggio?
Faticoso, è stato, e alla fine entusiasmante perché ho registrato la differenza che è stato uno dei motori che mi ha indotto a scegliere, individuare quali opere rianimare, come fare una grande opera sul Tempo. Non c’è stato amore né coraggio, a parte quel coraggio che mi ha inchiodato davanti alle tele, alcune almeno, come in Esercizio 1 remix che mi ha davvero spaventato. Per una settimana mi accomodavo su una sedia e osservavo la tela, bianca, e pensando ad Esercizio 1 sbiancavo per timore di non farcela ripercorrendo con la memoria tutto il lavoro, circa quattro mesi, che mi aveva tenuto in allarme per la sua realizzazione: un lavoro lungo, di velature e ritocco costanti, con ori e argenti, aureolina. Mi dicevo che era follia, m’era impossibile accedere in quello spazio bianco, così pulito e allo stesso tempo così ‘spirituale’, dove avevo dipinto la natura e l’uomo: un uomo immerso nell’incanto, nell’enorme solitudine vegetale colpito da un raggio di sole, colpito di luce e creato. La differenza è avvenuta ricordando l’opera di Sokurov, ripercorrendo quello spazio ricamando, senza nessun ritocco (montaggio direbbe Sokurov), natura e uomo illuminato, tanto che alla fine ho impegnato solo, si fa per dire, 28 giorni della mia seconda volta. Un successo, potrei dire: nel cartiglio ho definito il mio Esercizio come la mia Arca Russa. Alla fine ho compreso di essere diventato un bravo pittore. La sorpresa non mi ha allarmato né mi ha entusiasmato a dire il vero perché nelle prime prove le difficoltà, così evidenti, davano alla fine un risultato straniante, vedevi subito che c’era qualcosa di storto rispetto alla cosa dipinta, vedevi che il mio leone, uccello o uomo dipinto sembrava vivo, ma con occhi attenti capivi anche che erano tutte immagini di morte le mie, imbalsamate – come ho detto recentemente un imbalsamatore ero verso la pittura. Adesso le stesse opere, quelle di Due volte, si mostrano diversamente, e vitali: non ho dubbi su questo esito.

Replicare sé stessi equivale a mettersi in discussione e intraprendere un viaggio nella memoria, due processi che di certo non si affrontano a cuor leggero. Come ti sei preparato?
A Palermo, più che nella mostra Due volte, ho tenuto un lavoro, durante la residenza del Grand Tour (curata da Michela Eremita insieme a Susanna Ravelli), durissimo perché ho rimesso lì, sì, in discussione tutta la mia vita d’artista. È stato immorale fare un’opera di questa tenuta: riscrivere un diario quotidiano che dalla recente data mi ha condotto fino all’esordio, quando lasciai l’isola per fare l’artista. In Due volte non mi mettevo in discussione, ripeto: il progetto mi metteva in una condizione posturale nuova, animata, entusiasmante perché ho compreso Due volte in una forma originale e originaria che mi ha definito pittore, finalmente pittore, senza trauma. Non ero preparato, a Palermo, tanto che durante la breve residenza sono crollato più volte, arrabbiato anche, dandomi dell’idiota e tirando pugni contro i miei fantasmi. È stato magnifico.

Quest’anno sei stato impegnato, oltre che a Palermo e a Milano, anche alla Fondazione Rossini e a Casa Sponge, nelle Marche: puoi raccontarci in breve queste esperienze?
Tre diverse esperienze, tutte benedette. The Battle a Briosco, Radioso e O solitude, my sweetest choice a Palermo e un breve incontro con amici pittori a Casa Sponge. In questi quattro impegni risiede la modalità, a tutto tondo o quasi, del mio modo di vivere e intendere l’arte. In The Battle, curato da Francesca Guerisoli presso la Fondazione Rossini, ho continuato quel mio strano stare al mondo strusciandomi con la morte. Come un Caronte fermavo su fogli segni che di volta in volta i vivi-morti mi lasciavano trasparire nella loro posa, deposti su un letto candido. In uno spazio allestito e naturale che mi faceva percepire lontano, rassicurante ma facilmente raggiungibile poi da chiunque fosse in quel luogo, chiamato limbo, dove potevano ascoltare i miei Racconti funesti, queste anime venivano accompagnate fino al letto di morte, dove morivano. E una volta segnate si rianimavano, per procedere nella loro propria esistenza. Con Radioso, a Villa Zito, curata da Sergio Troisi, in breve è stato facile abbracciare con alcune mie opere le opere di pittori della collezione Zito; mentre l’evento messo in scena nella Cripta del Piliere, ideato da Cristina Costanzo, è stato un’opera intensa, affine a The Battle perché mi sono calato sottoterra in un angolo dove i morti si colavano. O solitude my sweetest choice è un’opera di molti occhi fatta: un gioco forza esisteva tra lo sguardo del pubblico, lo sguardo dell’opera, il mio sguardo, e lo sguardo degli Smartphone che registravano quel vedere e vedersi in O solitude. A Casa Sponge, la residenza marchigiana di Giovanni Gaggia, abbiamo trascorso momenti sognati: incontrare amici, artisti, immersi nella straordinaria cornice naturale del suo paesaggio, nel borgo poi, assieme ai popolani che ci portavano vino, andare a cena con gli amici pittori, parlare animosamente d’arte, mangiare pasta al tartufo, bere vino, disegnare, alzarsi all’alba per immergersi lontano nei monti, diventare paesaggio, spazio, stare coi gatti, i cani. Un sogno. Un bello stare al mondo. E come un bello stare fortunatamente tutto è stato breve, grazie a Casa Sponge.

Ti capita mai di essere influenzato dagli allievi della “Scuola di Santa Rosa”, da te animata – nell’omonimo bistrot di Firenze, e talvolta anche “in trasferta” – insieme a Luigi Presicce?
No, mai. Ognuno arriva armato o disarmato con le proprie emozioni, desideri. Galleggiamo in un momento spogliato da tensioni di qualsiasi natura, ognuno fa quello che vuole. Generalmente si arriva al bistrot e si lavora. Spesso, purtroppo per loro, io comincio un po’ dopo a disegnare perché magari faccio un prologo, in breve parlo, a volte tanto. A volte apprezzano, a volte ignorano le mie chiacchiere ma so bene, e mi sono abituato, che anche la mia voce, come la loro, i segnali tracciati nei fogli, servono per ornare quei momenti meravigliosi.

A bruciapelo: figura umana o paesaggio?
In Esercizio 1 ho dipinto figura e paesaggio senza timidezze. La figura è più facile, però. Ma è possibile che prima o poi riesca a pensare e a fare una mostra di paesaggio come facevano i grandi paesaggisti, che per me sono i vari Lorrain & c.

I tuoi dipinti raccontano spesso riti, tradizioni, pratiche devozionali. Qual è il tuo rapporto col Sacro?
Non so dire. Rispondere mi è difficile. Vedi, un ragazzo torna al suo paese e vende un cane, il cane di suo padre ignaro, per riuscire a pubblicare il suo romanzo. C’è qualcosa che mi dona fastidio in questa scelta, credo, per le sorti del cane. C’è anche una volontà folle in questo gesto che merita comunque, come nei grandi romanzi tramandatici, rispetto e stupore: quella di riuscire nell’opera, ad ogni costo. Eppure quel cane mi tormenta, proprio non riesco a liberarmi del suo stato inerme, vittima di una volontà cui nulla può seppur esso abbia investito tutto l’amore e la fiducia verso il suo padrone, il padre qui violato, e violato il cane. Quel cane non mi fa prendere sonno. Non so che dire. Non riesco a trovare qualcosa che risponda alla tua domanda. Mi ossessiona il gesto del ragazzo, mi domando poi fino a che punto c’è opera o cosa è possibile fare per realizzarla, costi quel che costi, eppure c’è qualcosa di prossimo al martirio, contro ragione in quel gesto furioso. Quel gesto muove l’ambizione dell’uomo, e la sua opera. Ossessionato dai cani, e penso a Flaubert, o a Coetzee, o a questa opera straordinaria quale Ahlat Agacia appena raccontata, penso e mi lascio pensare a queste e da questi segnali di irragionevolezza. In quello stare, in mezzo stare osservo il mondo. Nelle tele che dici in fondo mi hanno sempre affascinato i rituali e il mezzo della loro rappresentatività. Tele siffatte, queste delle processioni religiose, potrebbero spiegarle meglio di me Canetti, o meglio ancora Furio Jesi. Nato in un piccolo paese dove il folclore è misto alla tradizione e il sacro è qualcosa di prossimo al fanatismo, ecco, sono cresciuto dentro questo inabissamento della vita reale, pulsante di irrealtà devota, che da sempre mi ha spaventato. Queste ritualità in qualche modo hanno segnato come un incubo parte della mia percezione del Sacro seppur viva a modo mio, intimamente intendo, questa alterità. Non ho mai compiuto una mostra sul Sacro e, se proprio dovessi, inseguirei le forme alte della fuga come ha fatto il più grande, Bach. Ci sono opere che sento sacre, benedette. Queste mi commuovono e mi fanno dannare perché non sono un credente. Ma amo tutto del Sacro: i luoghi sacri, le opere, i santi, il color porpora, l’azzurro e lo zafferano delle vesti, le aureole kirliane, l’estasi degli sguardi, i capezzoli pronunciati, il rosaceo, i pilastri di madreperla. Il Sacro mi sorprende nei giorni di grazia, e sono momenti in cui cedo alla preghiera.

Come artista, che cosa ti fa paura?
Anche a questa domanda fatico a rispondere. Mi fa paura l’Arte. Alcune opere in particolare, e sono quelle che non riesco a comprendere ma che mi mettono con le spalle al muro. Per incomprensibili intendo opere che non capisco come sono fatte, realizzate, come sono state generate e risolte: e come accadono allo sguardo, interiore ed esteriore. Succede raramente e quelle volte che mi accade di incontrarne una mi fa tremare, di paura. Se, mi domando, un uomo è riuscito a fare tanto, tanto che io non riesco a comprendere come sia stata fatta l’opera, come sia così distante e feconda da me, allora mi fa paura. Ma questa paura la rispetto e mi spinge a credere che ho fatto poco o nulla e, quindi, è una paura, questa, che parla a me stesso come artista, come persona che si lascia sorprendere dall’irragionevolezza abissale che esiste tra uomo meo e opera. Mi è successo quando ho visto la pala di Raffaello della Trasfigurazione, o come il Faust di Anne Imhof, Leone d’oro all’ultima Biennale veneziana. Allora, disorientato, comincio a dimenticare, a decantare quella paura che ha la forma dell’Oscuro per poi inseguirla, sognarla per il resto dei miei giorni. Inseguo, infine, questa paura che spero possa anche accedere a me stesso, forse perché sogno qualcosa di grande, di così grande che io, così minuscolo, indistinto punto nel mondo, posso solo sognare e chiedere di provare a fare meglio, sempre. La paura mi è necessaria per finire meglio, al meglio, anche con un semplice foglio di carta, la mia resistenza contro la vita.

Che lingua parla, oggi, la tua pittura?
Il suo raggio è esteso, fatto di luce. Lo sforzo mio è quello di estenderlo ulteriormente almeno finché mi sarà possibile; ma più di che lingua parli la mia pittura, oggi, mi interessa pensare a qualcosa che possa estendersi, essere incinta, gonfiarsi, all’essere prospera la forza della mia pittura; di Sacro, insomma, parlerà la mia pittura.

(Intervista pubblicata su Artslife, 28 novembre 2018)

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