Keep calm (and visit Corea)

24 giugno 2013

Corea
Questa è una foto del Padiglione Corea alla Biennale 2013. Non vi preoccupate, non vi è scesa la cataratta. Poi vi spiego.
Cominciamo con la cronaca.
Innanzitutto ci mettiamo in coda.
Mentre aspettiamo, un addetto ci sottopone una liberatoria terrificante, in cui si avvisano i signori visitatori sofferenti di claustrofobia, attacchi di panico, tachicardia, ansia, vertigini e doppie punte che l’entrata è a loro rischio e pericolo.
[Dalla fila inevitabilmente principiano a levarsi impudichi coming out psichiatrici. Arrivano i primi dati aggiornati sulla diffusione mondiale dello Xanax.]
In ogni caso non c’è da preoccuparsi: in primis perché, mal che vada, possiamo scegliere di non entrare in quella stanza (ve l’ho scritto: dopo vi spiego), poi perché – ci rassicura sadicamente l’addetto – “questa è la Corea del Sud, non del Nord”.
Firmiamo, impavidi.
È il nostro turno. Fuori al Padiglione due panchine, diverse paia di scarpe. Che è, una moschea? Lasciate ogni infradito, voi ch’entrate. Ma scalzi non si può: chi non li ha, deve indossare dei calzini (made in Corea? made in China?) forniti dall’organizzazione. [Io ne ho un paio, grigi, da tennis, abbinati alle ballerine profilate di verde fosforescente, scelta che due ore prima mi ha portato sull’orlo del divorzio].
Ci danno un numeretto, indi…
Eccoci inside. Che bellooo! La casa degli specchi del Luna Park!!! Uffa, ma perché non posso farmi una raffica di autoscatti bimbaminkia da postare su Facebook? Abbasso gli occhi: per fortuna sotto il vestito ho i leggins. [Parentesi: se il vostro lui – o la vostra lei – ha la pelata, questa è una preziosa occasione per vendicarsi, specie se due ore prima eravate a un passo dalla separazione per un paio di calzini].
Poi arriva il nostro turno per quella camera. Aneoica. Anecoica. Aniconica. Manicomica. Nessuno lo sa ripetere. Comunque è un bugigattolo tutto nero, per un minuto ti chiudono lì dentro e sono fatti tuoi. SDANG. Aiuto. I pensieri iniziano ad affollarsi. Il primo è che alle miniere di salgemma di Wieliczka sono scappata molto prima, adesso almeno sono dentro. Il secondo è che sto barando spudoratamente. Tanto è buio e nessuno se ne accorge. Con una mano mi sto reggendo alla parete di stoffa/spugna o chissà che, con l’altra cerco di rimanere ancorata a un fluttuante alternarsi di mano-braccio-fianchetto che suppongo siano dello spregiatore di calzini [hai visto mai coglie l’occasione per filarsela…].
Pensieri, pensieri…
È incredibile come, a distanza di quindici anni, a tradimento torni il ricordo di quel tour nelle dark room romagnole che i tuoi amici ti raccontarono con dovizia di particolari.
Mi scappa da ridere, ma non devo: altre persone nella stanza stanno vivendo un’esperienza artistica. Toccassero la stoffa/spugna che sto stringendo io, capirebbero la finzione e addio illusione, immersione, sensazioni. Sei pessima, mi rimprovero. Vigliacca e truffaldina. Molla quella parete. Fossi scema. Allora resisti, concentrati. Cerco di occupare quel che resta dei sessanta secondi pensando a Kimsooja, a quanto mi piacevano i suoi coloratissimi lavori da sapunara, oppure a John Cage e alla sua camera aneolica, anecoica, analcolica. Quella roba lì. Chiudo gli occhi e respiro. Stringo la finta parete e respiro. Non vale, lo so. Ma io non voglio sbattere a terra al quarto padiglione che visito.
Quando esco, sono contenta:  è stata dura, ma finalmente, dopo tanti anni, sono riuscita a “vedere” la mostra di Gregor Schneider alla Fondazione Morra Greco.

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