Sentimento e trash disegnati con la china

18 marzo 2009

La personale di Marco Raparelli alla Galleria Umberto Di Marino

Il futuro non è più quello di una volta. Più che un paradosso, è la parodia di un luogo comune a dare il titolo alla personale di Marco Raparelli da Umberto Di Marino, in via Alabardieri 1. Un corso di cinema d’animazione a Londra e un talento, quello per il disegno, sfociati in mestiere. Non è però la grafica l’unico momento della produzione “multitasking” del 34enne romano, il quale, oltre che in un corto e in una sapida “quadreria” di oltre trecento chine, s’industria in installazioni e divertissement concettuali (ad esempio, il “buco” sul pavimento dal contorno seghettato come un cartoon, che non si cura più di tanto dell’illusione ottica). Leggerezza e ancora leggerezza: un museo del quotidiano arguto e piacevole, schizzato con tratto rapido e felice, miniature antropologiche in un’atmosfera un po’ spiegazzata e decadente, ma tutto sommato gaudenti e spensierate. Personaggi elementari, corpulenti, talvolta surreali, come gli acrobati della videoanimazione “The abandoned dog”, protagonista un cane che, nella sua passeggiata verso il mare, incontra buoni e cattivi: narrazione semplice, metaforica, ondivaga. Una flaneurie che aleggia sul resto di una personale che si addensa nella piccola, e si direbbe crepuscolare, epopea dell’uomo qualunque. Che – raccontano tre maquettes, irriverente deformazione delle scintillanti case di Barbie – vive in un appartamento qualunque; ha la pancia, ma colleziona magazine per fusti palestrati; dorme in una cameretta spartana, ma davanti al lettino ha il poster di una maggiorata (ben altra cosa rispetto alla sua fidanzata, Bef, procace sicula che sbuca nella galassia di figure all’ingresso). Romantico e trash, gretto e fiabesco, Raparelli alterna immagini in presa diretta di una realtà banale e squalliduccia – dichiaratamente vicina al cinema di Ciprì e Maresco, inventori di Cinico tv – a scenari da fiaba. Aggiungendo grazia al suo minimondo, fa sorgere da un laghetto il più classico dei castelli – sogno cheap dell’uomo qualunque? – e, dopo aver concretizzato il “materiale onirico”, fa rotolare fuori dalla strip i massi neri che il Sisifo moderno di “God must be crazy” si porta sulle spalle. Per la serie, “take it easy”, sgràvati dai pesi e ricorda che “Something will be wonderful someday!”. Anche se qui, più che una magia, ci vorrebbe un miracolo…

(Roma, 18 marzo 2009)

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