La città in rete con Horsfield

8 novembre 2008

Alla Galleria Toledo la presentazione del progetto del fotografo inglese insieme a B Loop

 

«Sarei molto più interessato io a fare le domande a lei…». Comincia così l’intervista a Craigie Horsfield, il fotografo inglese che, dopo la mostra per il cinquantenario del Museo di Capodimonte la scorsa primavera, da maggio ha deciso di stabilirsi a Napoli per realizzare una delle sue ”conversation”: serie di foto che non sono semplici ritratti, ma nodi di una rete di relazioni per raccontare una città viva e vissuta, e non descritta dai media o dalla politica. Compagne d’avventura, Maria Teresa Annarumma, Nicoletta Daldanise e Rossana Miele, fondatrici di B Loop, agenzia di servizi per la cultura a trecentosessanta gradi. Un lavoro che terrà impegnato l’artista per due anni e che verrà presentato stasera alle 19 alla Galleria Toledo, insieme ad un ”assaggio” dell’installazione sonora realizzata in collaborazione con Reiner Rietveld. Collaborazione: parola chiave per entrare nel lavoro di Horsfield, dal 1993 sostenitore di un’arte ”sociale”… «All’inizio era un’idea stravagante, molto new age… Oggi invece è quasi di moda».

Perché un progetto su Napoli?

«Innanzitutto per caso. Sono venuto qui per la prima volta quarant’anni fa. Poi, quando ci sono tornato per la mostra di Capodimonte, l’accoglienza è stata più o meno questa: ”È molto difficile vivere a Napoli”. Questa è una città che pone al presente domande scomode, e qui molte cose emergono più che altrove».

Come sceglie i soggetti da immortalare?

«Ci scegliamo a vicenda. La foto è come un matrimonio! L’artista, il soggetto, il pubblico concorrono tutti alla realizzazione dell’opera, in modi differenti, ma senza gerarchie. Il lavoro parte da un semplice gruppetto, poi si sviluppa in un network, non solo di artisti. Finora abbiamo coinvolto una cinquantina di perso- ne. Quando è cominciato il progetto, chiesi se ci fossero a Napoli dei movimenti, delle reti di artisti… ma non c’erano. Qui c’è una forte competizione. Noi invece stiamo lavorando alla creazione di una piattaforma… potrebbe essere vantaggioso per tutti».

Quale sarà il comune denominatore?

«Il punto di partenza è dare attenzione al mondo in cui viviamo. Il fine è mettere insieme le persone per aiutarle a riflettere».

Quanti scatti realizza durante una ”seduta”?

«Innanzitutto trovo improprio il termine ”scatto”. Secondo alcuni, infatti, la foto è veloce, e mostra qualcosa che non possiamo più vedere. Spesso il concetto stesso di fotografia è legato a quello di morte. Io invece sono per lo ”slow time”, per la storia che scorre lenta: l’arte richiede attenzione. Perciò per me il tempo della foto non è solo quello dello scatto, ma anche quello del soggetto che posa e quello dello spettatore che guarda. Mediamente, in un’ora, un’ora e mezza, realizzo una settantina di immagini, al massimo due ritratti al giorno. Per me è importante tutto il procedimento, per cogliere i diversi lati di una persona».

Non pensa che le persone si sottopongano alla ”Conversation” per narcisismo, per la voglia di vedersi ritratti da un artista celebre?

«È una domanda difficile… Qualcuno lo fa, ma con le mie domande sulla vita, su futuro, sulla percezione del mondo riesco a modificare questo atteggiamento. La mia modalità è questa. Poche persone credono che l’immagine parli in modo profondo. In un mondo in cui prevalgono alienazione, alterità, però, non è più utile dire che siamo tutti divisi».

 

 

(Roma, 8 novembre 2008)

catacunbrandon