Nostalgia dei Settanta nel sogno di Pavlisko

1 novembre 2008

Formidabili quegli anni. Anni di lotte politiche e di battaglie civili, ma anche di immaginazione al potere e liberazione sessuale. Uno sballo, insomma. Dopo la personale di Michael Phelan, che “sbandierò” col variopinto tirassegno del tie-dye la gioia fricchettona, si concentra ancora sulla nostalgia dei Settanta la Changing Role, con Todd Pavlisko che, assistito da Maximilian Schubert, pone tra sé e il passato non solo la barriera del tempo, ma anche la nebbiosa cortina dell’alterazione percettiva. Ottenuta in primo luogo attraverso il più classico dei “viaggi” – quello sulle ali della marijuana -, in un gruppo di opere che, prive di riferimenti visivi diretti alla cultura psichedelica coi suoi acidi cromatismi, offre un’interpretazione più mediata e parecchio attualizzata di quell’epoca. Una lettura col filtro, con un uso versatile o mimetico dei materiali. Come la pelliccia di lupo bianco, il piperno e il bronzo, con cui vengono fusi a cera persa i ray-ban, gli intramontabili occhiali da sole utili a nascondere sguardi strapazzati e stanchi, sciolti su una pietra lavica imitando la poetica surrealista dell’oggetto molle, o dipinti di rosa shocking, forse nel tentativo di camuffare ulteriormente una realtà già sfocata nel deliquio della droga; o, ancora, il bronzo “appallottolato” e stropicciato come carta stagnola, involucro per chewing gum o per tenere al caldo pasti già pronti, da consumare velocemente per saziare la fame chimica. Si mastica e si rimastica così anche il mondo circostante, le cui sembianze diventano meno nitide immergendosi in un ipnotico stato di torpore. Un sonno – e “Sleep” è il titolo dell’esposizione,- fecondo d’immagini, minuziosamente rifratte nella moltiplicazione miniaturistica di una divertita autocitazione (sul pistillo al centro della corolla sta riprodotto il fiore medesimo). Un biglietto per paradisi artificiali dove si vede pure la Madonna – d’alluminio, ma c’è – e, al contempo, un pass per sognare mete più terrene, magari suggerite dalle splendide illustrazioni del National Geographic, abbandonato con negligenza sulla “laid table”. Una natura morta accidiosa, che al tedio della vita oppone nient’altro che inerzia e noia, l’indolenza di un’atmosfera illanguidita dal down che segue inevitabilmente l’euforia del “trip”. Snaturando inoltre l’elemento ricorrente e coagulante della mostra, il bong, la pipa ad acqua emblema di ritualità collettiva, qui manipolato in interventi “mononucleari” che parlano di una solitudine che appartiene più a nostri tempi che a quei “mitici” Settanta. Probabilmente, tutto un sogno anche quelli.

(Roma, 1 novembre 2008)

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