Massimo Andrei filma Roxy In The Box

19 ottobre 2008

Il documentario dedicato all’artista partenopea chiude il 13mo festival Artecinema

«Di schiaffi ne ho presi ininterrottamente, dalle tre del pomeriggio alle nove di sera. Ed erano tutti veri, eh!». Ci tiene a precisarlo, Roxy In The Box, che oggi alle 21,15 all’Augusteo chiuderà la 13° edizione del Festival Artecinema con “Schiaffilife” (clicca qui per il trailer), il documentario che Massimo Andrei ha realizzato sulla sua vita d’arte e d’amore per l’arte.
In cui i ceffoni sono stati tanti, anzi forse un po’ di più, visti la città «scomoda» (Napoli) e il «quartiere estremo» in cui Roxy, dopo una giovinezza nomade, ha scelto di stabilirsi. Un mini-film di 17 minuti che nasce dal «silenzio dell’arte visiva che irrompe nella pancia», ma anche un lavoro polifonico: la voce fuori campo, che sollecita l’intervista a cuore aperto e lingua sciolta, è quella del regista; le altre sono quelle della direttrice del Pan Julia Draganovic e di Gennaro De Masco, cantante-performer complice di cento progetti, compreso quel “T’aggia scassà ‘o sanghe” che, pur con tutti i crismi del tormentone pop, è in realtà una riflessione tosta sulla violenza “globale” che tormenta i nostri tempi. Perché il lavoro «sull’individuo» di Roxy è così: trasformista, sgargiante, dissacratorio, ma intriso di dolore e solitudine, perché – dice la pittrice – «se togli il colore nei miei quadri c’è il nero». Tante sfaccettature che Massimo Andrei ha voluto e saputo cogliere, aiutato anche da una rara empatia. Tutto parte da un incontro virtuale: un dipinto di lei visto da lui sul desktop di un computer…

«Il quadro – ricorda il regista – era “Il basilico di Stephanie” e i colori accesissimi e l’espressione della protagonista mi incuriosirono non poco. Sentii prima di tutto l’ironia dell’assemblaggio concetto – resa pittorica … che in effetti mi appartiene: esprimere un concetto sociale e universale attraverso un momento o una figura comune. E poi mi faceva ridere e questo è fondamentale! Molte opere di Roxy sono amaramente comiche».

Un “colpo di fulmine”?

«Non proprio, ma una scoperta fatta e sposata. Non mi feci colpire, bensì capii che poteva essermi vicina. Poi ci siamo incontrati e seppi che lei si ritrovava nello stile, nella comicità e nell’amarezza di un mio film appena uscito, “Mater Natura”. Parlandole, ritrovai quella voglia di sdrammatizzare e contemporaneamente di denunciare i dolorosi stati d’animo di chi vive da queste parti. La profondità di certe opere rese con un cromatismo forte e lo stile quasi grafico, da cartoon, ereditato da qualsiasi media contemporaneo, o alcuni tagli da cinepresa, certe figure che sembrano uscite dalla tv. Simboli, icone, personaggi, da Hitler ai puffi, da San Sebastiano all’Uomo Ragno… sono ciò che sono io: la fusione».

Aveva girato altri documentari su artisti contemporanei?

«No, è la prima volta. Mi occupo di documentari da poco tempo, con la produzione Mater che è nata ai tempi della guerra di camorra ed è fiorita durante l’inondazione della monnezza in città, e sempre su argomenti sociali. Ai tempi dell’università ho realizzato un videodocumento sul professore che mi ha iniziato a questo mestiere e che fondò varie realtà culturali a Napoli, tra cui la cattedra di Storia del Teatro all’Università “Federico II”, Franco Carmelo Greco. Più che un artista contemporaneo: una miniera d’arte».

Qual è il taglio di questo “corto”?

«Non ho privilegiato l’incontro tra due artisti, né il mio stile da regista: questo sarebbe venuto automatico, perché siamo intonati tra noi. Ho voluto che emergesse prima di tutto Roxy, che ha tanto di dire, anche oltre l’acrilico e la tela. Ma non mi piaceva l’idea di farla parlare e far vedere a full screen le opere, come di solito si fa quando si trattano pittori, fotografi ed altri… un’inquadratura l’opera, un’altra l’artista che parla. No: volevo lei e le sue opere insieme, lei ridipinta da me, con i colori che a lei e a me piacciono, sopra le sue opere. Dentro. Ecco perché quando la situazione si fa più confessione, Roxy è inquadrata completamente immersa nelle sue opere. Intendevo ricollocarla di nuovo da dove si è staccata, dal suo mondo immaginato, denunciato e pittato, lei che già personalmente e iconograficamente è figlia/madre di quelle sue figure».

Perché il titolo “Schiaffilife”?

«Lei parlava di cose dolorose vissute personalmente e da parte della sua/mia società… e allora mi è parso di sentire tutto un percorso fatto di schiaffi della vita… o meglio una vita di schiaffi… “Schiaffilife”. Ma ho inteso non metaforizzarli, metterli veramente in video, darglieli io personalmente. Usare esorcisticamente un realismo che diventa comico».

Quali affinità sente fra il lavoro di Roxy In The Box e il suo?

«Roxy adopera segni, simboli ed elementi reali della vita quotidiana, della cronaca o del nostro consumismo (perfino il documentario ha una data di scadenza: il 2013, ndr) per farci riflettere o per provocare… Nel mio teatro, nelle mie fiabe o nel mio cinema anch’io mi esprimo così. Forse con un piglio più colto, ma pur sempre pop. Pop non solo secondo le spiegazioni di ciò che significa l’arte pop, ma pop anche come parola abbreviata di popolare… cioè che può essere letta da tutti, anche da chi non ha strumenti di cultura alta e quindi ha difficoltà a decodificare i messaggi».

Quale riscontro potrebbe avere questo “corto” in altre città d’Italia e all’estero?

«Secondo me, grande. O forse è solo il mio augurio… perché è corrente e immediato; perché è sincero, non è fiction; perché è piacevole… e questo serve sempre».

Ci saranno altre collaborazioni con Roxy in futuro?

«Sicuramente: la sento molto affine. Anche se non le vorrei dare molta confidenza!».

(Roma, 19 ottobre 2008)

         

         

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