Con Laib mondi fatti di luce

30 settembre 2008

L’artista tedesco espone da Alfonso Artiaco l’installazione ispirata dalla cultura indiana

Pareva avviato ad una brillante carriera di medico, Wolfgang Laib. E invece dopo un viaggio in India prese la strada dell’arte. Colpa della medicina occidentale, troppo meccanicistica di fronte alla sofferenza e incapace di dare quelle risposte che, parafrasando Gandhi, alla fine non esistono. Perché la scienza, interrogandosi sul significato profondo dell’esistenza, pretende di trovarvi soluzioni impossibili. Al contrario l’arte «apre diverse possibilità e vari mondi». In uno di questi si è sviluppato uno stile non troppo concettoso, se è vero che la lettura di “The Cobra Snakes are Coming out of the Well at Night” – terza personale del tedesco presso Alfonso Artiaco, dopo quelle del 1992 e del 1998 a Pozzuoli – risulta improntata all’elementarità di una visione perspicua. Un’installazione organica sia per la relazione tra le opere, sia per i materiali adoperati, naturali come la cera, il polline, il riso e il latte usati in passato. Stavolta l’olio, in cui stanno immersi gli stoppini delle lampade ricavate in ciotoline di terracotta, e cenere, ammonticchiata nei vasi di coccio ordinatamente disposti sui tavoli di nudo ferro al centro della galleria di piazza dei Martiri 58. Di ferro anche i cobra piatti e stilizzati appoggiati alla parete, emblemi di distruzione sui quali tondeggia l’occhio ingenuamente dipinto, scimitarre o roncole per una metaforica falciatura. Radicale, ma non definitiva. Il circuito costruito da Laib, intorno al quale gli spettatori sono “costretti” a girare come gli oranti nei templi, esemplifica infatti i concetti di eterno ritorno e rigenerazione cari alla cultura indiana, riassumibili in una terzina delle Upanisad: “In me tutto è nato/ In me tutto esiste/ In me tutto si dissolve”. Così la realtà del corpo si consuma nel fuoco e precipita in cenere, segnando al contempo – spiega l’artista – «un nuovo inizio». Una rinascita scandita dal colore bianco, che rievoca tanto le “pietre di latte” realizzate in passato, tanto, per contrapposizione, «l’inizio della vita animale». Un progetto – esposto in tre differenti versioni al Musée di Grenoble e alla galleria Buchmann di Berlino, oltre che a Napoli – legato indissolubilmente al paese in cui Laib ha deciso di porre la sua seconda dimora («Sarei stato molto triste se fossi rimasto solo in Germania»), raccontato con lo spirito di un “iniziato”, ma anche di un viaggiatore dell’epoca coloniale, affascinato da un universo decifrato attraverso un mix di naif e primitivismo, complementi di una ricerca imperniata con “occidentale” asciuttezza sul binomio geometria & materia. Un approccio non etnologico né antropologico (nonostante la nota folcloristica: una superstizione locale ammonisce di non evocare i malefici serpenti di sera), quanto un retaggio romantico, pervaso di curiosità ed estetismo. Sopravvivenza descrittiva di un perenne passato, di fronte all’attualità di un Subcontinente sulla rampa di lancio delle Superpotenze.

(Roma, 30 settembre 2008)

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