Malato uguale marchiato

31 marzo 2020

Lui è Jonathan. Balbuziente. Gay. Colto. Istruttore di yoga. Scrittore. Sieropositivo. Jonathan è tutto questo, ma non è solo questo. Perché una malattia può arrivare a darti quella forma che hai sempre inseguito, un’identità attorno alla quale cucire tutto il resto, ogni più piccola sfumatura, ogni passione, ogni progetto.
Fin dalle prime pagine, si capisce come la “Febbre” di Jonathan Bazzi vada oltre quelle linee di mercurio, inchiodate intorno al 37, che conducono alla diagnosi: HIV. Un tempo sentenza senza appello, oggi subdolo “ospite” tenuto alla catena dalle terapie antiretrovirali. L’infezione non è più il nemico vistoso di qualche anno fa, eppure non è sparita: migliaia di invisibili sono tra noi, tra i nostri amici, colleghi, conoscenti. Jonathan ne prende consapevolezza ogni volta che varca la soglia del Sacco, l’ospedale milanese dove, nel 2016, comincia la sua nuova vita. Una vita spaccata tra un prima e un dopo. In mezzo, domande laceranti sul passato e sul futuro; giorni passati a compulsare il “dottor Internet” in cerca di un altro malanno; ore d’inerzia e depressione, di debolezza e fragilità.
L’amore: ecco l’altra grande “febbre” che suda tra le pagine del volume. Non tanto come pulsione erotica e autolesiva, ma soprattutto nell’itinerario di un’altra, cocente malattia: quella del non-amore, dell’abbandono, la ferita del bambino invisibile, cresciuto in una di quelle famiglie che gli psicologi classificherebbero come “disfunzionali”. Lo sfondo è Rozzano, “Rozzangeles”, “il Bronx del Nord”, “una specie di Sud senza il calore del Sud”, “Sud sradicato e reimpiantato in fretta”.
Ed è, questo “Sud sequestrato, incattivito, in cattività”, esso stesso malattia inestirpabile, appiccata addosso come una seconda pelle, una lettera scarlatta che non ti abbandona mai. Segnato, Jonathan. Minato dalla balbuzie, che lo espone al bullismo e alla macerazione ossessiva del controllo (“Sarò il più bravo. Il più bravo di tutti”), in una carriera scolastica altalenante. Additato per la sua omosessualità, per le scarpe luccicanti e i giocattoli da femmina, si rifugia in un mondo glitterato di eroine e principesse invincibili. Jonny conosce troppo presto la vergogna e la colpa, l’umiliazione che brucia le guance e torce le viscere. Finché l’HIV gli farà capire che “il resto ce lo metti tu, ce lo mettiamo noi”, e che si può essere padroni della propria esistenza.
“Ma sei sicuro? È proprio necessario? Chi te lo fa fare? Guarda che una volta che l’hai fatto non si torna più indietro”: queste le reazioni quando lo scrittore Bazzi annuncia di voler “fare qualcosa” col “suo” virus, per non subirlo. E cos’altro, se non metterlo nero su bianco? Prima un articolo, poi un libro, intrecciando – anche nella struttura narrativa – quel prima e quel dopo. Ripercorrere il filo dei giorni, degli anni, in un momento in cui la diagnosi sta rinsaldando il filo dei legami: la mamma, che sostiene con la sua concretezza; il fidanzato, che resta col suo amore. A prendersi cura di un corpo che, dopo un pellegrinaggio da un ospedale all’altro, torna ad essere una persona. Jonathan scrive, dichiara al mondo, e il pubblico si spacca tra haters e ammiratori. Essere sieropositivi non è un tabù, i tempi della pubblica gogna e del linciaggio sono finiti, eppure… Ci pensa allora la parola a far barriera, a disinnescare il pettegolezzo e l’odio. Nel frattempo, la vita scorre tra il lavoro, lo yoga, le cene fuori, i controlli in ospedale, il caffé del mattino e una pillola da prendere molto regolarmente: un confetto rosa che entra nella routine di coppia e nelle serate tra amici. Una vita senza colpa né vergogna. “Luce ovunque, si veda tutto”.

(Articolo pubblicato sul Roma, lunedì 30 marzo 2020)

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