Maestri o professori?

11 maggio 2016

Emanava, anche a distanza, odore di capelli grassi. Portava tacchi alti, sottili. Le piaceva strizzarsi in abiti di lanetta. Ne aveva perfino uno rosso. La pappagorgia le spenzolava sui seni molli.
Era convinta di essere una gran bellezza. Ma la tragedia non era questa.
L’unica volta in cui non potei evitare di fare la strada con lei fino a scuola (in genere, se la vedevo da lontano, rallentavo il passo), mi parlò di sé. Disse che aveva iniziato a frequentare una piscina, ne lodava i risultati sul proprio corpo. Evidenti a lei fuorché a tutti. Io sudavo freddo, avevo i crampi alla pancia. Esattamente come quando entrava in classe e apriva il libro per interrogare. Un passo dietro l’altro, non vedevo l’ora che quella tortura finisse.
Pregavo di non dover varcare il cancello della scuola insieme a lei. Me ne sarei vergognata: non volevo pensassero che mi comportavo come i molti che cercavano d’ingraziarsela. Del resto, non c’era bisogno di corromperla: lei lo era già. Anzi, considerava come atti dovuti gli omaggi che pretendeva. Senza troppi complimenti, a inizio anno scolastico si informava dello status sociale dei nostri genitori, e da ciascuno reclamava. Tuo padre era un coiffeur? In men che non si dica, ti sarebbe arrivata la richiesta di costosi balsami e lacche. Avevi una sorella al Comune? Avrebbe trovato modo di chiedere un favore, una precedenza, una preferenza. Spesso, poi, non aveva bisogno di domandare. Il fatto che la città fosse ricca – ai tempi – per l’artigianato orafo e che le aule dei liceo pullulassero di rampolli corallari bastava a spiegare le voci sui forzieretti di gioielli favolosi che aveva accumulato dietro la cattedra e sul pianerottolo all’ultimo piano di casa sua, dove dava lezioni private a legioni di universitari e liceali, spesso suoi alunni.
Tra i suoi sport preferiti, non c’era il nuoto, ma l’insulto e la denigrazione. Naturalmente, la mia balbuzie mi fece eleggere immediatamente a oggetto della sua crudeltà. Ma ci fu un’altra componente che le fece decidere scientificamente di rovinarmi la vita: la presenza, in un’altra classe del corso, di un mio cugino, le cui ambizioni vennero da lei pubblicamente irrise e disprezzate. Oggi quel cugino, laureato in una delle materie che lei non sapeva insegnare, trova posto ovunque nel mondo grazie ad un prestigio acquisito a suon di competenze.
Talvolta, durante le interrogazioni, veniva a sedersi tra i banchi, lasciando il tapino alla lavagna ancora più desolato e atterrito, a sbrogliare un esercizio che lei non si era presa la briga di spiegarci. E, tra i banchi, cercava la nostra vigliacca complicità nello sbeffeggiare il compagno interrogato. Di contro, c’erano i suoi preferiti e le sue cocche: le ragazze ed i ragazzi della buona società locale, gli “happy few” coi quali lei cambiava completamente tono di voce. “Come sei carina oggi” “Che belle calze”. E la bella di turno veniva costretta alla sfilata tra due file di banchi.
Per fortuna, non entravo mai in nomination.
Alle ricorrenze, esigeva vassoi di paste. Ma solo di quella tal nota pasticceria. E solo di alcune paste, con la determinata farcia.
Per fortuna, faccio onomastico e compleanno d’estate.
Forse mi odiava anche per quello.
Un anno mi dissero che avevo rischiato la bocciatura. Per una sola materia: la sua. Finii rimandata in un’altra materia, quella del professore col quale aveva platealmente litigato una volta nei corridoi.
Quando andò via, nel primo trimestre dell’ultimo anno, tirammo un sospiro di sollievo. Tutti? Non so.
Penso che con tutti i soldi che mio padre ha speso in ripetizioni, avremmo potuto comprare una casa al mare. Naturalmente le ripetizioni le prendevo da un’altra. Non ero tra i polli stipati nel sottotetto del suo stabile, in quel quartiere popolare che lei si portava addosso con rabbia. La sua voglia di riscatto ruggiva contro i deboli, si affievoliva contro i capelli profumati di shampoo, le borse Naj Oleari e le Timberland originali dell’upper class.
Quel giorno, comunque, non la ebbi come compagna fino a scuola. Iniziava una pioggerella sottile. In piazza, sotto il monumento a Garibaldi, c’era già una macchina ad aspettarla. Capii che era un’abitudine. Aprì lo sportello, s’infilò, sparì. Il papà della mia amica, farmacista, ingranò la marcia, andarono via.

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