Pierino e il lupo

6 aprile 2016

“Chi pecora si fa, ‘o lupo s’o mangia”.
“’O no’, ma che vo’ dicere?”, chiedeva il bambino con la bocca aperta, l’occhio leggermente strabico dietro le lenti spesse come fondi di bicchiere.
Il vecchio lo guardava sconsolato, scrollando la testa: “Figlio mio, ‘a vita è comme ‘a scala d’o gallenaro: corta corta e chiena ‘e ppuppù!”.
Allora, anche se vagamente, Pierino capiva. Capiva che il papà di sua mamma, Peppe ‘o sbirrone, lo stava crescendo per diventare un vero uomo. Di quelli che danno le mazzate anziché prenderle, che stanno pieni di femmine e non devono dare mai conto a nessuno.
E così ogni giorno Pietro Bencivenga si allenava per diventare un vero uomo, rotolandosi sul campetto di pallone dietro la scuola nuova, polvere e ciuffi di sterpaglie in mezzo a palazzoni di cemento incancreniti dalla ruggine, dove le mamme si urlavano da un balcone all’altro sbattendo tappeti e strofinacci.
La scuola la vedeva un giorno sì e uno no, oppure uno sì e due no: perché il vero maestro di Pierino era suo nonno, che lo stava crescendo per diventare un vero uomo.
Il problema è che Pierino non era un uomo, ma un coso di nove anni, stiracchiati su un metro e trenta di ossa nervose. Un rametto indeciso e impaziente, frutto disgraziato di due piante storte e assetate. Suo padre era niente più che uno scarabocchio in fondo a qualche cartolina: “dalla Svizzera”, tagliavano corto, “sta là per lavoro”. Ma Pierino, pure con l’occhio strabico e le lenti spesse, vedeva bene che i soldi a casa li portava sua mamma, quando la sera tornava a casa come una pezza, le mani spaccate dalla varechina. A trent’anni pareva una vecchia di sessanta, e Pierino di vergognava di andare con lei a messa la domenica.
Mentre era fiero di quel nonno, Peppe ‘o sbirrone. Uno che, a onor del vero, non aveva mai indossato una divisa in vita sua, ma si era guadagnato l’epiteto mercé una serie di atti di giustizia e di soperchieria (a seconda dei punti di vista) variamente dispensati nel quartiere. Oltre a non aver mai indossato una divisa, ‘o sbirrone non aveva mai faticato in vita sua, attribuendo la sua disoccupazione – tamponata prima dalla buonanima di sua moglie, e adesso da quella figlia con prole a carico – a un’imprecisata sventura che lo aveva colpito durante “la” Guerra.
Pietro Bencivenga si era così affacciato all’adolescenza con le più pessimistiche prospettive – la scala del pollaio, appunto -, e l’angoscioso imperativo di prevalere nella feroce lotta per la vita. Solo che la natura non aveva fatto di lui un combattente: l’occhio strabico e la forte miopia, per l’appunto, nonché un fisico minato da un’inappetenza cronica che pareva aver coltivato come una forma di cortesia verso la miseria di casa sua. E non era finita: soffriva di un tic, un movimento involontario che gli faceva torcere testa e collo verso sinistra, come se cercasse di liberarsi da un moscone fastidioso, sicché gli amici del campetto lo avevano soprannominato “Pierino giravite”.
E di vite, piene di ppuppù come gli aveva insegnato suo nonno, Pierino ne girò parecchie, mettendole in fila l’una dopo l’altra, entrando e uscendo dai commissariati. Piccoli reati, tutto sommato: qualche scippo, uno stereo rubato, un poco di fumo spacciato fuori le sale giochi. Ogni volta toccava a lui andarsi a riprendere il ragazzino al posto di polizia e riportarlo alla casa famiglia o in comunità. Uno scappellotto dietro la testa, un bel cazziatone e la promessa di farsi vedere il giorno dopo a “scuola”, cioè in quello stanzone che il Comune aveva finalmente elemosinato a quella piattola di Bencivenga e agli altri maestri di strada come lui che per mesi avevano assediato l’Assessore, senza scoraggiarsi davanti alle tonnellate di timbri, alle carte che si perdevano da un ufficio all’altro, ai soldi che non c’erano mai e alla delibera che non arrivava.
Era successo che, nell’estate dei suoi dodici anni, Pierino giravite aveva salutato per l’ultima volta Peppe ‘o sbirrone, inutilmente attaccato ad una flebo nel corridoio dell’ospedale (perché in corsia non c’era posto). Poi, giorno dopo giorno, era riuscito a finire prima il suo piatto di pasta con la salsa, poi la scuola, poi l’università.
Né pecora né lupo: Pierino aveva scelto di essere la ramazza del pollaio. Quella che sta appoggiata proprio lì fuori, ma che pochi riescono a vedere. E ad avere il coraggio di prendere in mano.

(racconto realizzato per il corso di scrittura tenuto da Calogero Marchese a Casale Monferrato_ nov 2015 – feb 2016)

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