L’artista è immobile. E periferico

21 aprile 2009

Enrico Morsiani da Umberto Di Marino

 

Non basta una pelle già riccamente arabescata di tatuaggi a farsi notare, a sentirsi parte di una “tribù”. Non basta al ragazzone che, sotto l’occhio della telecamera, si fa sparare. Non a morte, ovviamente: giusto perché la cicatrice fatta su misura dal proiettile sui muscoli palestrati dimostri che lui è un vero duro, anche se subito dopo il colpo inizia a contorcersi dal dolore. Non è una performance azionista, né l’ultima frontiera della body art, ma una perversa variante dell’adagio che mette insieme “bello apparire” e “soffrire”, intercalata dal demo di una telecamera in cui una spigliata ragazza s’improvvisa modella. L’intreccio lo realizza Enrico Morsiani nel video esposto in “Where the Slake Mountain Proudly Talks” (da Umberto Di Marino in via Alabardieri 1, fino al 9 maggio), personale dai molti nodi problematici: il narcisismo, la voglia di protagonismo, l’invadenza dei linguaggi massmediatici. Lampanti perfino in un calendario realizzato dagli alunni di una scuola imolese, che rievocano i grandi eventi della Storia – la caduta del Muro di Berlino, piazza Tien-an-men – con pose cheap che meglio figurerebbero nella campagna di pubblicitaria di una jeanseria (ricordando un po’ i russi di AES + F). Smanie e nevrosi che ridicolizzano l’Occidente periferico, espressione che designa, spiega l’artista, «una condizione geopolitica e mentale che interessa trasversalmente molti paesi, caratterizzata da un certo immobilismo». Una stasi cui cede egli stesso, nel momento in cui opta per il ready made: «Cerco di fare il massimo rimanendo più immobile possibile. Le opere con un’eccessiva fase produttiva mi appesantiscono e mettono ansia». Un taglio al superfluo, ma con un’attrazione fatale per le esasperazioni concettuali, che Morsiani rielabora esponendo packaging e didascalie, o fornendo link e password per visionare direttamente il “non – prodotto” in Rete, bypassando la galleria: «In realtà le opere in mostra non ci sono. Lo spettatore deve attivarsi, chiedersi cosa significa una password nella didascalia e inviarmi tale password. Il meccanismo che propongo è molto semplice: una nuova tipologia di opera che consiste nel suggerire al pubblico un’“esperienza privata”. Vorrei lavorare sulla superficialità della fruizione, e non mi piace un’arte vista come qualcosa di artificiale, “facile” e rassicurante. Nell’operazione – prosegue l’autore – c’è comunque uno spirito giocoso che uso spesso». E c’è dell’ironia anche nel gesto, vagamente “dadaista”, di mettere in vendita una riproduzione della propria laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche: titolo che denuncia come Morsiani non abbia seguito studi specifici, ma sia piuttosto approdato all’arte per «reagire ad una situazione di limite fisico diventato sempre più mentale. È stato un processo spontaneo. Credo che si possa fare ricerca perdendo ogni speranza di riuscire e ogni timore di non riuscire. Cioè mantenendo un coinvolgimento distaccato. Un giovane artista non dovrebbe vivere del suo lavoro, il pericolo è quello di diventare un artigiano dell’arte contemporanea. Cosa che a me annoia e non interessa».

 

(Roma, 21 aprile 2009)

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