“Guattarelle” d’artista per T293

21 novembre 2008

Lucie Fontaine nello spazio di Piazza Amendola

Quando nel 2005 inaugurarono la sede di piazza Amendola, sembrava dovesse essere solo una “succursale” della casa madre, quella “T” stava per (via) “Tribunali” e 293 per il numero civico. Poi, a poco a poco, quella nel quartiere “bene”, accanto allo storico Liceo Umberto, diventò il main space. Dall’ottobre di quest’anno invece, invertendo la tendenza, Paola Guadagnino e Marco Altavilla sono ornati alle origini, in quel decumano massimo sempre più condannato al degrado (architettonico, economico e umano) da un’agenda politica, culturale e massmediatica che ha cassato la parola “riqualificazione”. Non un dietrofront, ma un “new deal” con una precisa valenza culturale e, per così dire, civile. «L’investimento è stato molto faticoso – dicono all’unisono i “signori T293” -, ma fare diversamente avrebbe significato tradire questa città, che comunque non ha meno difetti delle altre. Nonostante tutto continuiamo a credere nel centro storico ed è questa, forse, la sfida più stimolante». Così, dopo la ristrutturazione progettata da Antonio G. Martiniello, alla prima mostra della stagione – la complessa collettiva “Out of sight”, scrupolosamente curata da Adam Carr intorno al tema del ritiro, del “chiamarsi fuori” dal mondo – seguirà martedì prossimo la personale di Jordan Wolfson, al quale toccò, ironia della sorte, battezzare la “sorellina” di Chiaia con “Jeim no pedti”, curiosa operazione che, lasciando la galleria così com’era, nuda e cruda e col pavimento imbiancato, non lasciò certo indifferente il pubblico.
Un ritorno (tra gli altri in programma, Claire Fontaine e James Beckett) che chiude in grande stile un anno pieno di impegni e soddisfazioni, tra cui il Bâloise Art Prize assegnato a Tris Vonna-Michell nel corso della 39° Art Basel, la “fiera delle fiere”, e il podio sfiorato per il riconoscimento “Illy Present Future” dal vicentino Alberto Tadiello ad “Artissima”.
E lo spazio di piazza Amendola? Resta, ma per progetti curatoriali strettamente site specific e a breve termine, inseriti in un ciclo che, ponendo la domanda “Perché Napoli?”, invita gli artisti ad elaborare una propria percezione della città senza la formula del residence program. I primi a produrla sono stati Lucie Fontaine, un “nom del plume” che i due componenti del misterioso duo hanno rubacchiato per assonanza un po’ a Lucio Fontana un po’ a Claire Fontaine. Un divertissement dadaista che ruota ironicamente intorno alla scatola magica per eccellenza: il teatro. O meglio, il teatrino dei burattini, piazzato al centro dello spazio espositivo e circondato da “guattarelle” molto particolari, ispirate ai personaggi che hanno segnato la scena del contemporaneo all’ombra del Vesuvio: Peppe Morra, Lia Rumma, Hermann Nitsch, Achille Bonito Oliva, Graziella Lonardi, Joseph Kosuth, Marina Abramovic, Ernesto Esposito, Dina Caròla, Joseph Beuys e Andy Warhol, tutti intenti a fare il più classico degli scongiuri con l’indice e il mignolo. Ogni coppia, fomata secondo libere associazioni, ha il proprio fondale – topoi come piazza Plebiscito, il Vesuvio, il Maschio Angioino – e il proprio canovaccio, ma non è detto che non siano intercambiabili. Un lavoro grazioso, flessibile e promiscuo, che manipola sfrontatamente l’oleografia partenopea, quella tendenza a cristallizzare la storia in miti e stereotipi che forse, sotto sotto, lambisce pericolosamente anche il mondo dell’arte.

(Roma, 21 novembre 2008)

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