Operazione San Gennaro

11 aprile 2011
Un Tesoro di patrono. Sei siti museali, e il meglio di un patrimonio ricco di oltre ventimila pezzi. Una mostra che scioglie il sangue nelle vene, ma solleva alcuni interrogativi… 

“San Gennaro non è un santo di creazione moderna; non è un patrono banale e volgare, che accetti le offerte di tutti i clienti, accordi la sua protezione al primo venuto e s’incarichi degl’interessi di tutti […]”. Le parole di Alexandre Dumas padre (“Il Corricolo”) sono senz’altro un buon viatico per la mostra Le Meraviglie del Tesoro di San Gennaro. Le pietre della devozione. Perché, come si conviene a un santo aristocratico, principe di una schiera di oltre cinquanta compatroni, i doni tributatigli nel corso di sette secoli non si limitano certo a ceri, incensi ed ex voto d’argento sottili come chips. Macché.

Sono prodotti – in alcuni casi capolavori – dell’oreficeria e dell’arte, che testimoniano fattori storicamente e socialmente rilevanti. Innanzitutto che a Napoli, più che altrove, l’equazione religio instrumentum regni era davvero Vangelo. Poche città italiane vantano lo sfiancante avvicendarsi di dominazioni toccato in sorte ai partenopei: Franza o Spagna purché se magna, ma, se è vero che entrare a Napoli non era così difficile, più complicato era rimanerci. Ci voleva innanzitutto il placet del Patrono, e questo i nuovi intrusi lo sapevano bene.

Infatti non se n’è salvato nessuno: gli angioini gli cesellarono un busto-reliquiario, i viceré spagnoli ogni tanto contribuivano a rimpinguare il Tesoro della Deputazione (a titolo di risarcimento per tutto il bottino arraffato a colpi di soprusi e gabelle?), e pure l’ex rivoluzionario Gioacchino Murat non solo non gli rubò una spilla (fatto raro, vista la rapacità dimostrata da suo cognato Napoleone & co.), ma pensò bene di “chiedergli il permesso” con un ostensorio in argento e rubini. Superstizione, opportunismo, calcolo politico. In prima fila, naturalmente, i Borbone: Ferdinando I (o IV, o III a seconda dei casi) ha appena dieci anni (e la corona in testa da due) quando commissiona al gioielliere di corte Michele Lofrano un calice in oro, con rubini, smeraldi e brillanti; salvo poi ripudiare San Gennaro in favore di Sant’Antonio, nel momento in cui il Partono scioglie il sangue “fuori tempo” (cioè fuori dai giorni canonici fissati per il prodigio) per salutare i francesi e la Repubblica del 1799.

Aneddoti che rispecchiano il rapporto, reverenziale e confidenziale insieme, dei napoletani con il “loro” santo: temuto e venerato, invocato contro qualsiasi calamità umana e naturale (Vesuvio, peste), ma anche sfrontatamente insultato dalle sue “parenti” allorquando tarda a liquefare i sacri grumi. E chissà se questo terremoto di emozioni e sentimenti venne compreso dagli ultimi monarchi forestieri, i Savoia. Fatto sta che anche i piemontesi si adeguarono: riporta la data 23 novembre 1878 il primo cadeau nel neore Umberto I e di sua moglie Margherita; sarà, ma meno di una settimana prima il figlio di Vittorio Emanuele II era scampato a uno dei numerosi attentati di cui sarebbe stato oggetto nel corso della sua “carriera”, stavolta per mano di Giovanni Passannante. L’ultimo membro della dinastia sabauda, Umberto II, si era addirittura premunito, regalando nel 1931 una pisside in corallo e malchite made in Torre del Greco; non è dato sapere se poi San Gennaro, riconoscente, abbia scortato verso l’esilio il “re di maggio”, partito proprio da una città che sarebbe rimasta monarchica ben oltre il referendum del 2 giugno. Ma che comunque, una volta repubblicana, di destra o di sinistra, è andata puntualmente a baciargli la teca.

Perché alla fine, che si chiami “tata nuosto” o Bassolino, pare che Napoli non riesca a fare a meno di un capo, di una figura carismatica, autoritaria e paterna insieme. Ma, se dal piano terreno ci spostiamo a quello soprannaturale, la constatazione è che lo scettro è rimasto per secoli saldamente in mano al martire beneventano (almeno fino all’arrivo di Maradona).

Prendiamo di nuovo in prestito il sapido Dumas: “Cittadino prima di tutto, san Gennaro non ama in realtà che la sua patria; la protegge contro ogni pericolo, la vendica di tutti i nemici: Civi, patrono, vindici, come dice una vecchia tradizione napoletana. Il mondo intero fosse minacciato da un secondo diluvio, e san Gennaro non alzerebbe neanche il mignolo per impedirlo; ma la minima goccia d’acqua possa nuocere ai raccolti della sua buona città, e san Gennaro muoverà cielo e terra per ricondurre il bel tempo”.

Napoli, dunque, è San Gennaro.

Ma lo è ancora?

Questa è un’altra finestra, involontariamente aperta dalla mostra (che, per inciso, ha disserrato dopo un secolo l’antica porta della Cattedrale). E la vista non è quella, stereotipata, sul vicolo coi panni stesi e gocciolanti, ma abbraccia un orizzonte più ampio, dalle Vele di Scampia ai grattacieli del Centro Direzionale. Per arrivare al nodo: quanto i napoletani, oggi, amano San Gennaro? Quanto il suo culto ha resistito alla “mutazione genetica” partenopea della Postmodernità? E quanto il suo eventuale oblio ha inciso su questa trasformazione antropologica?

Difficile trovare il bandolo della matassa: da un lato l’oleografia, la superstizione, il fatalismo, la teatralità; dall’altro il retaggio storico, la tradizione in senso alto (come trasmissione di un bagaglio identitario comune) e un senso del sacro a livelli profondi, ancestrali e sinceri. Quanto di tutto ciò è stato traghettato nel Terzo Millennio?

Ogni tanto la Deputazione della Cappella del Tesoro tira fuori dai caveau i gioielli di famiglia (stavolta con massiccio dispiegamento di forze, viste le sei “piazze” espositive), li lucida e la mostra è fatta, e ha (meritatamente) successo. Quella del 2007/2008 – con alcuni dei pezzi oggi riproposti – totalizzò quasi centomila visitatori: quanti di questi erano napoletani? Il miracolo del 19 settembre e la processione di maggio sono sempre gremiti: fede, curiosità, spettacolo?

“Faccia gialla” conta su un esercito di 25 milioni di devoti sparsi in tutto il mondo, frutto delle migrazioni dei decenni passati, quelle con la valigia di cartone, i bastimenti e i treni del Sole. Ma i napoletani, spesso laureati e “masterizzati”, partiti più di recente e in business class ravvisano ancora nel patrono (foss’anche da un punto di vista più “folcloristico” che strettamente religioso) l’attaccamento alle proprie radici? La globalizzazione, che lo ha agevolato all’estero, lo ha forse affossato in patria?

E ancora: di quale “municipalità” è santo oggi, San Gennaro? Resta solo (se resta) nel centro storico, o resiste pure nei quartieri alti? E a Scampia? E a Pianura?

Quanto il culto ianuariano sopravvive come patrimonio collettivo e interclassista? Non è che il lumpenproletariat gli ha, per caso, preferito un Padre Pio? O che, snobbato dalle signore impellicciate, il martire non trova altro spazio nelle case borghesi se non tra le sudate carte di studiosi nostalgici? Non è che l’aggravarsi delle sperequazioni sociali in città ha travolto il suo nume tutelare?

Quanti bambini oggi portano il suo nome? Quanti, un domani, andranno in giro per il mondo sfoderando il passaporto con la scritta “Gennaro X, Naples”, magari con un pizzico di ritrovato orgoglio? Quello sì che sarebbe un miracolo…

 

Le Meraviglie del Tesoro di San Gennaro. Le pietre della devozione_ Napoli_ Museo del Tesoro di San Gennaro, Real Cappella di San Gennaro, Duomo, Complesso dei Girolamini, Archivio storico del Banco di Napoli, Museo diocesano

(9 aprile /12 giugno)

 

www.museosangennaro.com

 

Letture consigliate:

Alexandre Dumas padre, Il corricolo, Napoli, Colonnese, 2004

Pietro Treccagnoli, Elogio di San Gennaro, Napoli, Pironti, 2010

 

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