Brigataes tra uno e molteplice. Alla faccia dell’ego 118 video

11 gennaio 2009

Memorie visive per Aldo Elefante

Tutti per uno. Centodiciotto monitor, centodiciotto persone, centodiciotto volti, centodiciotto bocche che parlano. Prima una alla volta, ordinatamente. E poi, ogni cinque minuti, tutte insieme. Il che vuol dire caos, rumore. «Un disturbo, una paranoia, ma anche un’opportunità: quand’è che ti capita di sentire tanta gente che parla di te contemporaneamente? » si chiede Aldo Elefante, che con la vecchia ”etichetta” del collettivo Brigataes sosta per una settimana nella Sala Polivalente del Madre col suo video-album ”No lives were lost”. Impaginato come un trittico, ragionato sulla progressione numerica e originato sì dal passato, ma destinato a continuare vita natural durante. Così il progetto dell’artista napoletano: un grande espositore di 12 metri per tre, diviso in tre pannelli, sui quali si vedono e si ascoltano testimonianze rilasciate da tutti quelli che hanno fatto parte della vita dell’autore. Attori, musicisti, artisti, galleristi, critici (tra i nomi, Alfonso Artiaco, Antonio Onorato, Marco Zurzolo, Mario Franco), ma anche amici di scuola e familiari, in un documento che mescola vita privata e professione, perché, recita l’inclito verso virgiliano, ”forse un giorno gioverà ricordare tutto questo”. Sicché nessuna vita – tanto quella dell’artista quanto quelle dei suoi ”compagni di strada” – è andata persa e nessuna sarà sprecata, visto che grazie all’associazione romana Zerynthia il videoarchivio continuerà a crescere. Una promessa, se non di eternità, almeno di continuità, per fronteggiare l’incubo di  ogni creativo: guardagnarsi la fama, trasmettere il proprio nome ai posteri. Il proprio nome o la propria opera? Per quanto riguarda il primo, Elefante sembra averci rinunciato, continuando a mantenere quello del disciolto collettivo Brigataes, formazione aperta e mobile, che per battezzarsi scelse una via di mezzo tra il codice militaresco e la psicanalisi. Qui però sotto i riflettori c’è l’ego. Un ”io” però paradigmatico, dove il timore della perdita d’identità sacrifica l’esaltazione del singolo all’esigenza rappresentativa, esteticamente dominata dalla patina azzurrina del blu tritone amato da Elefante (si ricordi, ad esempio, l’”Invasion of the body artists” nell’ipogeo della Changing Role, quattro anni fa). Un lavoro centrato sul sé, ma non narcisistico né solipsistico, perché – dice Elefante/ Brigataes «l’artista non è mai solo, anche se finge di esserlo». Specie se, come in questo caso, coinvolge (e continuerà a farlo) una pluralità di soggetti, e se usa un medium come il video, che richiede l’apporto di un team di assistenti e consulenti. È ancora l’intricata matassa dell’identità nella molteplicità che tanti tentano di sbrogliare, tra omologazione, alienazione, frammentazione, autoesaltazione, coabitazione. Tra le strade, Elefante sceglie quella della memoria e del contatto umano (e, nell’epoca dei social network, spara a zero su Facebook: «Lo odio, mi ripugna, è un sistema di controllo sociale orribile»). Riproponendo sostanzialmente l’antica non-soluzione. Io non posso parlare di me. Lascio che siano gli altri a farlo. Perché io sono, al solito, uno, nessuno e centomila.

(Roma, 11 gennaio 2009)

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