Fresco Bosco

7 luglio 2006

Padula (sa), Parco della Certosa

Tutto in una notte a Padula. Veglionissimo di San Giovanni a occhi nudi nel Parco, dove fischia il vento della Gesamtkunstwerk. Un lavoro certosino, con un Oberon (o Aragorn?) d’eccezione: Achille Bonito Oliva…

Venghino signori venghino. Il termometro saliva, l’estate divampava, ma al di là del muro e tra gli alberi spirava la brezza della fantasia al potere. Regista Achille Bonito Oliva, re per Una notte di arte totale –precisamente quella tra il 23 e il 24 giugno- del Fresco Bosco della Certosa di Padula. Primo risultato: aver attirato il popolo dei vernissage a 160 km e rotti dalla capitale del Vicereame. Secondo: aver riportato l’attenzione sul gioiello del Vallo di Diano e, soprattutto, sulla carenza di infrastrutture che lo condanna tragicamente all’isolamento, meta irraggiungibile se non con mezzi propri. Terzo con riserva: la risposta dell’“intero paese” che, se a valle affollava incuriosito la corte esterna della “casa bassa” e i loci ameni teatro dell’operazione, a monte, contrariamente agli auspici e al battage, dichiarava indolente la serrata, in un abitato silenzioso e spettrale. Vieppiù deludente l’inaccessibilità del magnifico complesso, dalla chiesa alle cucine, dai chiostri allo scalone ellittico, comprese quelle cellette dei frati in cui, promotore il medesimo ABO, negli anni scorsi si sono susseguite Le Opere e Giorni, recentemente acquisite nella collezione permanente della Certosa. Peccato davvero, perché una full immersion avrebbe integrato significativamente un progetto che, soprattutto nei momenti “live”, è stato inevitabilmente costellato di intoppi, ma che pure sul piano espositivo ha evidenziato qualche smagliatura. Perché, in definitiva, quello che avrebbe dovuto essere il punto di forza, ovvero il contesto, si è rivelato una buccia di banana, contenitore di un percorso dispersivo e a tratti mortificante: il parco ha infatti ridimensionato drasticamente anche soluzioni che, sulla carta, promettevano ben altro arrembaggio visivo, risolvendo la “mostra” in una serie di incontri con ospiti non tutti a proprio agio, vuoi per posizione defilata, vuoi per debolezza formale ed espressiva.

La ribalta se la sono assicurata Gianni Dessì, col suo cogitabondo golem, Angelo Plessas, i cui vistosi stendardi non hanno fatto certo gridare al capolavoro, e l’efficace installazione percorribile di Giuseppe Gallo. E se Luisa Rabbia cantava con grazia le “foglie morte” cadute da alberi “crettati” nel porticato decrepito, la Crepuscolare Madonna di Alfredo Romano e il propinquo Calamaro di montagna di Ernesto Tatafiore cercavano l’armonia tra assenza e presenza con toni non sempre adeguati. La cornice agreste stroncava l’impatto dell’aureo dazebao concettuale di Braco Dimitrijevic, mentre l’intervento di Costas Varatsos si dissolveva come un ectoplasma sul muro di cinta. Chi invece non sbiadiva, anche per la ponderosa presenza scenica, era Hermann Nitsch, monumento nel monumento per l’occasione in versione soft, edulcorato in una frugale eucaristia a pane e damigiane (con poco liturgica opzione bianco o rosso) e depurato negli aspetti più truculenti delle sue celebri azioni, documentati dalla carrellata antologica in onda su due megaschermi. Brillava altresì la pila di ex-voto ideata da Matteo Basilé per la sua performance, cuori metallici che calamitavano come gazze ladre gli spettatori. Che erano tanti. Interessati, divertiti, ma un po’ disorientati.

E che niente è perfetto e tutto è perfettibile, specie quando si tratta di un “numero zero”, lo sperimentava l’infaticabile supercritico-autore, trottolando tra i prati per tenere il polso della situazione, cui poco ha giovato l’apporto del pur volenteroso “pifferaio” Alessandro Bergonzoni il quale, armato di megafono piuttosto che di flauto magico, sventolava la bandiera bianca dell’improvvisazione. Meglio, allora, non indurre il pubblico a sbandare in itinerari prefissati e, soprattutto, non imporgli l’assillo gracchiante degli altoparlanti, obici acustici disseminati a tradimento in mezzo al “desertum” dove, beati loro, i seguaci della regola di San Bruno meditavano in santa pace. A suonare il “silenzio”, con largo anticipo rispetto al ruolino di marcia, provvedeva il condottiero: è giunta mezzanotte, s’accendono le fiaccole. E poi che si fa? L’alba è lontana quando si rompono le righe. Tutti a casa. Lontano lontano.

anita pepe

mostra visitata il 23 giugno 2006

Link al PDF dell'articolo

 

 

narofrancine@mailxu.com