Il posto delle sagome

10 novembre 2011

Quoi dono lepidum novum libellum
arida modo pumice expolitum?

Raffaele Luongo_ Miei cari genitori, ancora mi attardo, ragion per cui divido l’attenzione tra me, tutto il nostro aver fatto e il tempo saturnino del dottor Isak Borg_ 2011_ tavolo, n. 492 cartoncini, zucchero, sale, bianco d'uovo e segatura_ cm 101,5 x 85 x 95_Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli. Ph. Luciano Romano

Questo mi accade all’età di. E quest’altro ancora all’età di”. Va in rewind la ghiandola pineale di Raffaele Luongo, mentre fa il vuoto nella sua mostra. Corregge continuamente la sua natura complicata e toglie, toglie, toglie. Scavando nei suoi ricordi a piccoli, precisi tocchi di cutter, e impilandoli gli uni sugli altri, 492 volte. Tanti sono i fotogrammi di quel frammento del Posto delle fragole di Ingmar Bergman, in cui il dottor Isak Borg, durante una sosta dal viaggio in macchina nel luogo dove ha vissuto con i suoi fratelli, ritrova i suoi ricordi di bambino.
Da questi venti secondi in cui infanzia e senilità chiudono per un attimo il cerchio, da questo “esercizio di metafisica sentimentale” (parole dell’artista) parte una personale che ha riflettuto lentamente sulla memoria e sulla consapevolezza di sé come emanazione del patrimonio familiare. Congeniale il raccolto Project Space della Galleria Artiaco, anche per la creazione di un ambiente sonoro che avviluppa lo spettatore e diventa un metalivello narrativo e didascalico del visibile.
Il visibile. Qualcosa giace accanto ai cartoncini progressivamente “svuotati” del profilo di Isak Borg, impilati sul tavolo al centro della stanza. Un ciottolo tufaceo, una zolla secca, un panino primitivo e arrugginito. Lì, nell’angolo. Non è stato estratto dall’umido profumato di muffe e radici, eppure, a suo modo, viene dal profondo. E da lontano.
Come in una fiaba popolare, il “sasso” è stato partorito dal tavolo dei nonni. Che non è un pregiato pezzo d’antiquariato, ma un semplice oggetto memoriale. Nudo tachimetro del passato, testimone di una tenera rusticitas già altrove rivendicata (My peasant roots, 2006), con quel pudore velato di ironia proprio dell’artista.
Artista naif ma non istintivo, che dietro il fanciullo alla Corazzini si arrovella sul pensiero lungo alla Gurdjieff, quello che rende praticabile l’impraticabile. Un atto che lascia dietro di sé scorie, producendo una mostra “drammaticamente residuale”, molto più della precedente.

La precedente. 2006. Galleria Artiaco, ma quella “grande”. Allora più adatta a un esordiente desideroso di dispiegarsi. Raffaele Luongo, anzi Raffaele (pressoché ubiquo nei titoli delle opere), disegna col sangue. Il suo sangue. Fumetti e storie autobiografiche. Sangue e cartoncino bianco. Sangue e lenzuola bianche. Sangue bianco. Niente di macabro, pochissimo di simbolico e, contro la congiura delle apparenze, niente di corporeo. Mentre lo usa, il sangue non è più il suo sangue, ma già precipitato, materiale. L’aria, la chimica, gli sguardi del pubblico lo rendono altro. Sarebbe stato un bel mood in cui cristallizzarsi, un comodo cliché. Soprattutto per un napoletano, prodotto di una Urbs in cui ogni tanto le ampolle si sciolgono, le pietre trasudano.

Invece, alla stazione successiva Raffaele scende con la biro e il pastello giallo fluo. Aureola poco decifrabile, santità esaltata dalle barrette neon. E non rinuncia al cartoncino bianco, ovvero la precisione, la pulizia, la purezza. La luce. Quella luce contrappeso alla spinta centripeta delle silhouette cave, del “contenitore emotivo” che tra le spire delle stratificazioni tira verso il midollo del tavolo. Il suono le avvolge entrambe, e non permette loro di disperdersi oltre la stanza.

***

Cosa resta, del corpo di Raffaele, di quella sua fraintesa fisicità?
Resta l’affannarsi con la carta vetro sul mobile dei nonni, carezza abrasiva che rivergina. Resta, ed è ancora tutto lì, il tempo trascorso su quel tavolo levigato e raschiato, il fiato della fatica mescolato alle ombre delle mani e dei gomiti che vi si sono appoggiati, insieme alla polvere, le uova, la verdura, la tovaglia, e a tutti gli odori, i silenzi e i respiri della casa. Asportati e impastati.
Perché quella pepita di zucchero grezzo, lì sul tavolo, è una meringa. E le meringhe non sono tutte candide come sogni di panna e gesso. Possono essere tuberi sgraziati, mostri di cibo fatti di zucchero, chiara d’uovo, sale e ricordi grattati via da un tavolo. La ricetta pervade la stanza, diffusa da una voce automatica. Un loop antigrazioso e metallico. Un’eco anonima e distante. Un oggetto poco rassicurante, alieno dal fruscio dolce della nostalgia, quando, commuovendosi davanti alla foto della quarta elementare, si vorrebbe finalmente sfilarsi dal cuore le parole che non ho detto a mamma e papà.
Un significante dunque disarmonico rispetto al significato, come un disturbo nel rumore bianco dell’insieme. Raffaè, tu tiene ‘a capa fresca!, esclama ad un certo punto la voce computerizzata. E forse questa incursione gratuita nel dialetto, stridente e nugatoria, la goccia che fa traboccare la politezza del registro stilistico, è la chiave più ambigua e sincera di tutta la mostra.

***

Cosa resta, del corpo dell’artista?
Resta, come nella favola di Eco e Narciso, lo iato di un racconto alienato e disperso. Restano le ossa di cartoncino bianco, cioè il tempo-durata che le ha calcificate. Resta, nell’addizione razionale dei 492 microflussi interiori, il lago placido e insieme insidioso dell’irresolutezza, dove inabissarsi scivolando sul fianco. Resta l’annuncio disatteso di riempire lo spazio tra fotogramma e fotogramma con la meringa, che invece scarta di lato, e si libera dal dovere di farsi calco perfetto di una bolla in cui resta sospeso “tutto il nostro aver fatto”.

***

Cosa resta del corpo?
Prima il sangue, adesso la mano. Calore della conca che raccoglie l’impasto, calore del fuoco che lo asciuga. “Mi piacciono i biscotti[1]. E mi piace dover cuocere due volte”. Togliere il freddo e l’umido, renderlo caldo e secco. Ippocrate e Galeno abbozzano sgranocchiando il personaggio di Raffaele il cuoco saturnino, Raffaele l’alchimista, che si rimette il grembiule e impasta un caput mortuum. Impasta una pietra pomice dai pori aperti. Impasta la possibilità dell’errore nel ritaglio solitario ed autistico delle 492 frazioni in cui lui, il dottor Isak Borg, ricapitola la propria vita fino a quel momento che non ne prevede un altro.

***

Agire, nel tempo saturnino, è trasgredire se stessi. Accelerare tirando la forza che ti trattiene. E lo stacco in avanti si può affrontare con un sorriso. La gita nella decorazione, i quadri appesi alle pareti, la mano di papà al volante come quella di un robot o di un manuale di scuola guida dalla grafica rozza. E nella cucina, la cucina dei fumetti, bisogna entrare con l’ombrello. Piccola surrealtà domestica, senza importanza, senza peso.
L’asteco chiove
e ‘a fenesta scorre.

***

Poi, come accade, l’artista se n’è andato. S’è addossato alla parete fuori il Project Space, a guardarsi guardare. E quella goffa meringa è lì da sola. Raffaele se ne sta lì, nell’angolo del tavolo. Aspettando che qualcuno lo faccia cadere. O che se lo porti via, prima che si sgretoli.

Raffaele Luongo_ Ancora mi attardo, ragion per cui_ Napoli, Galleria Alfonso Artiaco

(27 ottobre/10 dicembre 2011)

         

    


[1] Vd. l’opera Grosso lavoro, 2008.

Commenti

  1. Diana ha detto:

    fantastica!
    come te, nessuno mai!

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