Davvero di gusto quel cibo dipinto

17 ottobre 2008

A Villa Pignatelli dipinti e pannelli didattici ripercorrono la storia alimentare dei napoletani

«Esiste una sola arte, ma con tante diramazioni. E allora ci sono tante connessioni anche intorno alla cucina, perché la civiltà è comparsa quando gli uomini si sono messi intorno alla tavola». È con queste considerazioni che il presidente dell’Accademia Italiana della Cucina, Giovanni Ballarini, ha inaugurato ieri mattina a Villa Pignatelli “I colori del gusto”, carrellata sulla retorica del buon mangiare e del buon bere nella Napoli che fu, in un’epoca in cui al miliardo di obesi sparsi per il mondo fanno da contraltare i numeri, altrettanto imponenti e preoccupanti, dei denutriti o malnutriti (cifre, alla luce della recessione mondiale e del prospettato aumento dei nuovi poveri, purtroppo destinate a salire). Tempi in cui dilagano ogm, cibi avariati e contaminati, ma dominati dall’imperativo categorico di una sana e corretta alimentazione. E così il binomio tavola-cultura viene rilanciato nel bell’edificio neoclassico alla Riviera di Chiaia, dove – ha annunciato il Soprintendente al Polo museale napoletano Nicola Spinosa, affiancato nella curatela da Denise Maria Pagano e Fernanda Capobianco -, una volta rimossa la collezione del Banco di Napoli, sorgerà il Museo della Fotografia a Napoli, dove confluiranno l’archivio di San Martino, il fondo Paolo Ricci e i “regali” generosamente elargiti dai fotografi avvicendatisi nella trilogia di mostre per i cinquant’anni della pinacoteca di Capodimonte. L’occasione di questa proposta «su come e cosa si mangiava a Napoli» è stata data dalla Giornata Mondiale dell’Alimentazione, ma l’esposizione in realtà è destinata ad avere vita molto più lunga, poiché sarà «ambasciatrice » della cultura nostrana negli anni a venire, grazie al tour che compirà nei quaranta paesi in cui è presente l’Accademia della Cucina. Un’ambasciatrice in formato ridotto, però, visto che i dipinti stricto sensu si limitano a una quindicina: prevalentemente «nature in posa», ovviamente, più che «morte», con trionfi di frutti, pasticci, dolciumi e frutti di mare. Il resto è costituito da pannelli didattici con riproduzioni fotografiche di scene di genere, dagli affreschi pompeiani alle conviviali ottocentesche, isolate o inserti in soggetti sacri e profani. Centrali, come prevedibile, il Sei e il Settecento,donde scaturisce la notizia artisticamente più rilevante dell’iniziativa, quella dell’attribuzione a Jusepe de Ribera della “Natura  morta con testa di caprone”, prima dubitativamente assegnata ai Recco o a Ruoppolo. Un’ipotesi che Spinosa argomenta con i precedenti dei paesaggi e degli oggetti raffigurati in copia da questo «guaglione» spagnolo che per ben due volte cambiò il corso della pittura partenopea, prima con l’integralismo naturalista e poi con la svolta neoveneta. Fin troppo sintetica nei contenuti iconografici, la mostra ha tra i suoi pregi un bel catalogo, che consente di seguire l’evolversi della gastronomia partenopea, tendenzialmente fedele a un vegetarianesimo d’eredità greco-pitagorica, e delle mutate abitudini di un popolo che da ”mangiafoglie” si trasformò in ”mangiamaccheroni”. Un’esposizione decisamente low-cost (che però, rassicura il Soprintendente, «non è un preludio alle altre in programma, fondi del Ministero permettendo») ma che, nonostante l’affascinante dissertazione di Spinosa sulla sollecitazione totale dei cinque sensi stuzzicata dal desco imbandito, lascia la vista a… bocca asciutta. Ma, come si dice, de gustibus…

(Roma, 17 ottobre 2008)

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