Egittomania. Iside e il mistero

15 ottobre 2006

Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Dall’Egitto con furore. L’Archeologico “inizia” i visitatori al culto di Iside in Campania felix. Storia di un successo faraonico, che non è più un Mistero…

“Tu una quae es omnia” (Tu che sei una e tutto), ma stavolta ti moltiplichi. Quasi rievocando il mitico smembramento del suo sposo Osiride, Iside si sparpaglia per le sale dell’Archeologico, raccontando quale accoglienza riservasse la Campania alla divina egizia, approdata sui lidi ausoni nel IX secolo avanti Cristo. Un incontro felice, quello tra la devozione-superstizione indigena e la misteriosa forestiera, subito adottata dal pantheon locale sotto forma di Fortuna. Così la Signora della Luna prese dimora non solo nella Regio Nilensis partenopea (corrispondente attualmente all’area del centro antico fra via San Biagio dei Librai e via Tribunali) ma anche a Pozzuoli, Cuma, Pompei, Benevento, Ercolano (donde proviene la statua in basalto di Atoum, originale della XIII dinastia) e i centri dell’entroterra –Sessa Aurunca, Capua, Acerra, Teano e Carinola-, come testimoniano i reperti disseminati nelle vetrine, fra cui i monili decorati con quegli “occhi” che, tutt’oggi, resistono nell’idioma popolare come forieri di buona o cattiva sorte. Un’abbondanza di talismani, statuine, oggetti rituali (sistri, cimbali e ampolle) e preziosi (davvero mozzafiato gli skyphoi stabiesi) che purtroppo cade nella trappola della monotonia, insita in questo tipo di rassegne. E se allo spettatore viene saggiamente risparmiata la scontata paccottiglia di mummie e papiri, il criterio espositivo replica un modello invalso nelle proposte del museo napoletano, ovvero il massiccio impiego di pezzi attinti dalle proprie collezioni (vedi i precedenti Eureka! e Argenti a Pompei, e soprattutto Storie da un’eruzione, da anni in tournée trionfale per il globo). Con efficacia didattica, la mostra documenta i diversi valori assunti da un culto che appagò l’esigenza “trasversale” di una religiosità più intima e diretta, arrivando perfino a sostituirsi ai tradizionali Penati sugli altarini domestici, regalando in più quella scintilla di misticismo ormai spenta nei templi aviti.

D’altro canto, gli dèi venuti dal Nilo servirono strumentalmente ai potenti per legittimare la propria “sacralità”, come denuncia l’imperatore ritratto in veste di faraone tra i marmi beneventani raggruppati nel vasto atrio, prove – accanto alle numerose divinità teriomorfe – di una sorta di regressione stilistica nella figurazione umana, segnata dalla tendenza ad imitare la fissità dei modelli arcaici. Il ricco percorso prosegue al piano superiore, scandito per aree geografiche e focus tematici, esemplificando le iconografie isiache diffusesi in una regione agricola, -di qui l’identificazione con la fertilità, incarnata dall’allattamento del piccolo Arpocrate (Horus) – e marittima – da cui l’appellativo di Pelagia. Una delle sezioni più originali è quella sull’Egittomania esplosa tra Sette e Ottocento, nella quale spicca la parentesi sul Flauto Magico di Mozart (guarda caso, evento clou dell’autunno musicale cittadino, rappresentato al Teatro San Carlo nell’allestimento di William Kentridge). Le stampe attestano come i primi scenografi del singspiel, Gayl e Nessthaler, nel disegnare nel 1791 il tempio dove avviene l’iniziazione dei protagonisti, si fossero ispirati allo splendido Iseo pompeiano, che Mozart quasi certamente aveva visitato durante il suo viaggio in Italia nel 1770, cinque anni dopo l’inizio dello scavo. Del resto, quello era l’unico esempio noto all’epoca, visto che le campagne napoleoniche sarebbero cominciate solo nel 1798, determinando una mutazione di gusto puntualmente registrata dalle suppellettili delle Reali Manifatture di Capodimonte, ad esempio nei raffinati servizi da tavola in porcellana o nei delicati biscuit. E ci fu perfino chi osò trasformare il tempio di Iside in un elaborato centrotavola per leccornie. Un dolce sacrilegio sul quale, per quanto se ne sa, nessun… faraonico anatema pare mai essersi abbattuto.

anita pepe

mostra visitata il 15 ottobre 2006

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